Fin dal 1927 il Concorso Pianistico Internazionale Fryderyk Chopin di Varsavia vede sfidarsi sul repertorio del compositore polacco i migliori giovani pianisti del mondo. La competizione ha luogo soltanto una volta ogni cinque anni e prevede che, dopo ventuno giorni consecutivi di esibizioni, una giuria d’eccezione assegni un riconoscimento il cui prestigio è tale da assicurare a chi lo conquisti una fama imperitura. Con il suo Pianoforte (2023), visto all’ultimo Festival dei Popoli, Jakub Piątek documenta la diciottesima edizione del concorso, quella del 2021, mostrandocene però un volto inedito e intimo, distante dal rifulgente scintillio dei riflettori ma ad esso così indissolubilmente – e addirittura tragicamente – legato.

Osservando, come dal buco di una serratura, la quotidianità di alcuni tra i concorrenti, la macchina da presa di Piątek riesce infatti a costruire un ritratto della gara che ne rovescia la consueta immagine astratta, monolitica e cristallizzata per rivelarne la profonda e irriducibile umanità. Attraverso un movimento che è insieme centrifugo e centripeto, Pianoforte alterna infatti il racconto delle cinque fasi della competizione a brani delle vite quotidiane di alcuni dei suoi protagonisti – due trame tanto intrecciate da divenire propriamente inestricabili –, articolando così un discorso che fa succedersi istanti di acuta tensione e momenti sospesi, di trepidante immobilità.

Lo spettatore viene ammesso, per il tramite dello sguardo discreto ma lucido e attento del regista, non soltanto dietro le quinte del concorso, dove i giovani pianisti allenano il loro innato talento attraverso costanti fatiche e sacrifici ininterrotti, ma persino tra i banchi delle loro scuole e tra le mura delle loro case, ed è proprio costruendo questa continua oscillazione tra la dimensione pubblica della competizione e il suo rovescio privato che il film riesce a farci percepire la loro ineluttabile compenetrazione, a farci sentire quanto l’una eroda l’altro, lo plasmi e lo governi.

Per indagare in modo profondo l’umanità composita che confluisce sul palcoscenico del leggendario concorso, Piątek sceglie di accostarsi in modo privilegiato a sei soli tra i suoi quasi cento concorrenti. Sostituendo a quella visione distante e frontale alla quale gli spettatori della competizione sono abituati uno sguardo così intimo e personale su una manciata soltanto dei suoi protagonisti, il film ci trasmette un’impressione di familiarità immediata capace di farci immedesimare completamente con i giovani pianisti in gara. È proprio in questo senso di tenera vicinanza, però, che insinua le sue radici il cortocircuito: è proprio mostrandoci l’immagine di un compito in classe, di una passeggiata al tramonto o di una cena in famiglia che il film ci suggerisce che in fondo potremmo essere noi stessi i ragazzi sullo schermo, ed è, allora, proprio a causa di quelle immagini che nel vederli poi attraversare l’orchestra di fronte agli occhi di decine di telecamere e di un’enorme platea trepidante veniamo presi di colpo da un senso improvviso di spaesamento.

I sei protagonisti di Pianoforte conducono vite tra loro piuttosto differenti. Qualcuno comincia le sue giornate in silenzio, dedicandosi alla meditazione; qualcun altro gioca con il suo animale domestico accarezzandolo dolcemente e ringraziandolo perché “è l’unico che non si lamenta” delle sue ore ed ore di esercizio; qualcuno invece si rifugia in palestra dove lavora, con instancabile disciplina, per rinforzare la sua perfetta postura; qualcuno ancora si circonda appena può di amici con cui scherzare e qualcun altro, infine, rinchiuso in minuscolo appartamento, studia per prendere il diploma accanto a sua madre che prepara la cena. Nonostante siano così diversi, però, i cammini dei sei protagonisti sono destinati ad incontrarsi inesorabilmente, ogni giorno, di fronte agli stessi tasti bianchi e neri e addirittura – preparandosi tutti quanti allo stesso concorso – di fronte a identiche partiture.

Accanto a questi rari momenti di vita ordinaria, il documentario di Piątek descrive infatti con eccezionale pregnanza quella quotidianità del tutto singolare che vive, spesso fin dalla primissima infanzia, chi nasce con un dono e decide di tramutarlo in qualcosa di più. Il pianoforte è il centro gravitazionale delle giornate dei sei protagonisti, è il perno di ogni loro movimento e il fine ultimo di ogni loro gesto. Il suo suono accompagna, imperterrito, ogni istante del film ed è verso di esso che tutto sembra ineluttabilmente precipitare. Per quanto così apparentemente distanti tra loro, dunque, questi giovani pianisti risultano accomunati da qualcosa di profondo e propriamente radicale: la loro dedizione assoluta, la loro completa e non negoziabile abnegazione.

Con una delicatezza tale da scongiurare del tutto il rischio di scadere in una narrazione emozionale, Pianoforte trasmette lucidamente l’inesauribile duplicità soggiacente a questa ricerca dell’esecuzione più polita, del suono più esatto, e dunque – in sostanza – della perfezione: indagando i loro comportamenti con attento rigore il regista ci mostra infatti chiaramente come questi sei giovani abitino una così affannosa ricerca del perfetto come fosse insieme un rifugio e una prigione. Alla pienezza euforica della performance, al trasporto dell’esecuzione e all’estasi dell’applauso del pubblico si contrappongono senza posa l’estenuazione fisica e mentale causata dall’esercizio incessante, il peso opprimente delle aspettative e il terrore paralizzante di cadere in errore. La gioia del potersi dedicare a ciò a cui si sente così profondamente di appartenere è costantemente insidiata dal dolore della consapevolezza di dovervisi dedicare in modo esclusivo e totalizzante, rinunciando così a tutto il resto.

Quello articolato dal regista è dunque un ritratto sincero e genuino della vita straordinaria di chi mira a vincere quelle che una dei sei protagonisti del film, Leonora Armellini, definisce icasticamente le “Olimpiadi del pianoforte”. Esattamente come fossero atleti olimpici, infatti, coloro che aspirano alla vittoria del Concorso Chopin votano la loro intera vita allo studio e alla pratica dello strumento, un sacrificio radicale ripagato però dagli intensi istanti di ebbrezza che solo una performance di quella statura può assicurare.

“Anche se tutti quanti li fanno, i concorsi non piacciono a nessuno… d’altronde, come si può pensare di competere nella musica?”: sono proprio queste parole, pronunciate nel film dal giovane pianista Alexander Gadjiev, a condensare quella che sembra essere la questione che anima il discorso di Piątek e ne orienta il cammino. Al di sotto di ogni immagine del film si sente infatti riecheggiare senza tregua la voce insistente di un dilemma irrisolto, quello riguardante la necessità di conciliare l’inimitabile emozione di quel rapimento estatico che si può esperire solamente grazie all’arte e la consapevolezza del martirio al quale l’artista deve far fronte perché quell’arte possa essere prodotta.

Giacinto Scelsi diceva che per prendere parte attiva al «Piano Divino per l’evoluzione del Pianeta» un musicista deve giungere al «sacrificio (talvolta fino alle più tragiche conseguenze) della sua stessa natura umana. […] Alla malattia, alla pazzia o alla morte» (2010, pp. 8-9). È questa l’idea che, cinquant’anni dopo le parole del celebre compositore, Pianoforte sembra voler di nuovo problematizzare quando accosta le lacrime di commozione del pubblico rapito, durante la finale, dalle note del Concerto per pianoforte n1 in Mi minoreop11 a quelle di vergogna e frustrazione dei pianisti umiliati, durante le prove, dai giudizi spietati dei loro Maestri. Insieme a un’emozione profonda e pervasiva, questo film ci consegna allora un interrogativo tanto irresolubile quanto lacerante: qual è il prezzo che siamo disposti a pagare perché esista una tale bellezza?

Riferimenti bibliografici
G. Scelsi, Il sogno 101, a cura di L. Martinis e A. C. Pellegrini, Quodlibet, Macerata 2010.

Pianoforte. Regia: Jakub Piątek; sceneggiatura: Jakub Piątek; fotografia: Filip Drożdż; produzione: Telemark Studio; distribuzione: Greenwich Entertainment; origine: Polonia; durata: 91′; anno: 2023.

Share