Toni Servillo
La grande bellezza (2013).

In occasione della Conference Internazionale Pensare l’attore al Teatro Auditorium dell’Università della Calabria, la giornata conclusiva ha visto un incontro con Toni Servillo, sollecitato da Stefano De Matteis a riflettere pubblicamente su una serie di questioni: rapporto tra universo culturale e lavoro sul testo, tra libertà e rigore, atto performativo e sua ricaduta sul nesso tradizione – contemporaneità, concertazione e resa scenica, lavoro del teatro e lavoro del cinema. Si pubblicano qui alcuni estratti dell’incontro, ringraziando Servillo e De Matteis.

LIBERARE IL TESTO. Noi siamo portatori nei confronti del testo di quello che siamo, della nostra cultura, delle nostre consapevolezze, del nostro temperamento. Questo rapporto tra la consapevolezza intellettuale e la forza espressiva con cui trasmetterla è un assillo che, secondo me, tormenta sempre l’attore. […] Gli attori a cui ho guardato con interesse sono quelli che cercano di tenere insieme la dimensione della consapevolezza che viene liberata nel comportamento, nel gesto, nel teatro che si manifesta come comportamento. Si ha bisogno di conoscere, non pedantemente, la relazione che l’autore aveva con il suo pubblico, le ragioni per cui matura un testo in una certa epoca e come viene accolto in quell’epoca. Chiederci quanto il pubblico che assisteva a quegli spettacoli era drammaturgo dello spettacolo perché portava nella partecipazione un sistema di credenze, di aspettative, di idee. Secondo me è fondamentale avere questo tipo di consapevolezze, non perché ti servono a recitare, ma perché servono a creare una relazione possibile e sincera tra te e il testo. Il testo poi va liberato in un comportamento. Il testo è come se fosse un animale in gabbia; e questa gabbia ad un certo punto viene aperta e questo animale irrompe nella sala con la forza scandalosa della sua prepotenza, della sua aggressività, col suo fascino. Per liberare il dramma che c’è dentro il testo c’è bisogno di un  equilibrio costante tra la consapevolezza critica e il modo in cui questa consapevolezza viene poi “performata”. Ho amato quegli attori che “performano” questa consapevolezza. Quando in Sabato, domenica e lunedì, Eduardo mette la cerimonia del ragù al centro del testo, lui “performa” qualcosa che è banale ma che ci riguarda tutti e che mette in moto una quantità di riflessioni e di pensieri che si liberano nella sala, che ognuno fa propri.

CONSAPEVOLEZZA E PERFORMATIVITÀ. Quella consapevolezza, quella relazione del “chi sei” nei confronti del testo, quindi delle tue attrezzature intellettuali, delle tue conoscenze, sono fondamentali perché tu sappia di quel testo che cosa era straordinario quando è “accaduto” nella società, nella sua epoca, e quanto di quell’accadere si può riverberare nella nostra epoca. Consapevolezza e performatività. Secondo me il teatro si manifesta in tutta la sua bellezza quando è esattamente al centro di questi due poli; cioè, il teatro diventa incandescente quando questi due poli, come due pietre focaie, si sfregano l’uno con l’altro e offrono un’interpretazione in atto del testo che è pura, che è quasi trasparente, che allontana vizi narcisistici, pesantezze intellettuali e fa in modo che la consapevolezza e l’espressione liberino il teatro e il dramma che c’è nel testo e la sua genuinità. Se questi due poli si sfregano nel punto giusto, tu lo capisci eseguendo il testo molte volte. Cioè, io sono attore come un primo violino in un’orchestra di archi; io capisco sempre più il testo eseguendolo; l’idea che si ha del testo che si trasmette al pubblico corrisponde alla qualità dell’esecuzione che tu metti in atto. Questo può fare anche impazzire, perché se lo fai per quattrocento repliche distribuite in due anni e mezzo, significa che è un atteggiamento che tu hai col testo che è esattamente il contrario della routine […].

CONCERTAZIONE E RESA. Si tende a sottovalutare un concetto che è alla base del fare tante repliche, che è la “resa”. Io sto attento alla resa esecutiva che corrisponde a una nascita, a una risollecitazione, a una rigenerazione, a una incontenibile esplosione di vitalità che si mette in relazione al testo che è una cosa che deve rivivere. Per cui “concertare” può sembrare una parola che viene da un vocabolario antico, di tradizione, ma in realtà è semplicemente un mezzo tecnico che consente di avvicinarsi al testo con una disciplina e con una regola che però favorisce la libertà dell’espressione. Cioè, dentro i limiti della “concertazione” si aprono gli spazi della libertà. Tenere costantemente questa relazione tra il limite e la libertà, è il problema della resa. Limiti e libertà dentro la intellegibilità, cioè dentro la tensione a trasmettere, a comunicare, a fare in modo che quello che fai sia condivisibile, sia messo al servizio di qualcosa.

L’attore che recita all’interno della compagnia è qualcuno che partecipa costantemente a questo atto che si rinnova, perché ha come obiettivo uno standard di resa che abbia valore di autenticità, di sincerità, di forza. Il teatro dovrebbe, se c’è quella frizione, creare continuamente degli scandali, delle incrinature. Quella frizione tra ciò che si è rispetto al testo e come si “performa” questo essere, è ciò che dà al teatro quella natura per cui ogni sera viene drammatizzato l’evento, quello che accade nella sala in quel momento. È importante scegliere anche dei compagni di viaggio con cui tenere acceso questo fuoco intorno all’interpretazione del testo che si rinnova. Io sono stato da giovane accanto a Leo de Berardinis, a Carlo Cecchi, e ho visto nei temperamenti diversi di questi due enormi attori, quanto amore avessero nell’insegnare e trasmettere per chi sapeva raccogliere, sera dopo sera; compagni di viaggio che hanno delle consapevolezze; per cui è sufficiente anche ragionare intorno al testo. L’importante è mantenere costantemente acceso quel fuoco di relazione col testo, sera dopo sera. Credo sia una cosa che appartenga all’eternità del teatro questo trasmettere una relazione vera.

TEATRO E CINEMA. Al cinema sono come uno spettatore. Ho avuto la fortuna di partecipare ad alcuni film importanti, belli; qualcuno piacerà di più, qualcuno di meno. Mettendo a disposizione quello che sono, perché penso che il teatro sia una faccenda di attori e il cinema sia una faccenda di registi. Credo che un attore illumina una porzione di un film, così come un grande direttore della fotografia fa con la luce. Un attore illumina una porzione del film con la sua personalità, col suo temperamento, con la sua intelligenza. A teatro è l’attore che porta i contenuti ultimi del testo direttamente con le mani nel cuore dello spettatore. Al cinema questo lo fa il regista, aiutato dagli attori, ma lo fa il regista.
Il regista pensa il film ancora prima di sapere con chi lo farà; lo scrive, lo riscrive, lo gira e poi se lo porta a casa e se lo rimonta. C’è un atteggiamento da parte del regista nei confronti del film che è un po’ quello che ha lo scrittore con un racconto lungo, con un romanzo. Mentre invece il teatro ha una dimensione poetica, metaforica e simbolica che ha un altro tipo di relazione con il tempo, con lo spazio, con la comunicazione.
Una delle cose più affascinanti del teatro, secondo me, è che i personaggi veicolano pensieri. Non si può veicolare un pensiero essendo completamente alieno da quel pensiero. Mentre, invece, al cinema può accadere a volte di essere sedotti completamente da cose che hanno a che fare fino a un certo punto con i pensieri. Hai a che fare con suggestioni.

DRAMMATIZZARE L’EVENTO. Per tenere insieme quella drammatizzazione dell’evento, per far passare emozioni e pensieri contemporaneamente c’è bisogno di un altro sforzo che parte da un contenuto energetico che sta nel testo, ma sta anche nelle nostre viscere. Sono queste due cose che vanno tenute insieme. E questo non lo si capisce mai dopo due mesi di prove. Si comincia a capire dopo che hai fatto trenta, quaranta, cinquanta recite, verificate col pubblico. Comincia a decantare il testo, comincia a prendere una incandescenza che viene dalla relazione col pubblico. L’incudine su cui l’attore batte la lama (che è il testo) è il pubblico. Eduardo diceva una cosa bellissima: “Io fuori dal palcoscenico mi sento uno sfollato”. E leggendo Pirandello nei giorni scorsi ho trovato una frase quasi corrispondente: “Fuori dal mio mestiere mi sento un coso”. Non una cosa, un “coso”.
Io credo che, e qui mi viene ancora una volta in aiuto Louis Jouvet, per preparare una recita che si cerca di fare alle condizioni a cui accennavo prima, cioè con quella frizione tra ciò che si è consapevolmente e ciò che si fa performativamente, per cercare di ottenere quella trasparenza dell’interprete, cioè quella incandescenza dell’interpretazione che si mette tra il testo e il mondo, bisogna fare in modo a un certo punto che le altre ipotesi di vita siano accantonate. Bisogna rinunciare alle altre ipotesi di vita. Non ci si può immaginare in altre cose della vita che non siano legate a quel tentativo di creare la vita per gli altri, per la durata dello spettacolo. Questo rinunciare prepara alla possibilità che tu ti doni quanto più possibile. Io non vedo altra spiegazione. A questa rinuncia corrisponde un donarsi.

*L’immagine di copertina di Mimmo Paladino è tratta dalla mostra I drammaturghi, che ha avuto luogo durante le giornate del convegno Pensare l’attore. Tra la scena e lo schermo, Università della Calabria 29-31 maggio 2017. Dalle relazioni del convegno è tratto anche l’intervento di Toni Servillo  che qui pubblichiamo.

Riferimenti bibliografici
E. De Filippo, Sabato, Domenica e Lunedì, Einaudi, Torino 1974.
L. Jouvet, Elogio del disordine, a cura di S. De Matteis, Cuepress, Bologna 2016.
T. Servillo, L’accadere del teatro, in Toni Servillo. Oltre l’attore, a cura di R. De Gaetano e B. Roberti, Donzelli, Roma 2015, pp. 3-10.

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