La recente scomparsa di Alain Touraine ha lasciato un vuoto significativo nel mondo della cultura a livello mondiale. Touraine è stato uno dei sociologi più apprezzati a livello globale e nella sua lunga carriera ha attraversato una parte significativa e densa di grandi cambiamenti, tanto della seconda metà dello scorso secolo quanto del primo ventennio di quello in corso.
Alain Touraine nasce in Francia, in un piccolo paesino della Normandia nel 1925. Compie i suoi studi a Parigi, all’École Normale Supérieure, finiti i quali decide di abbandonare il mondo accademico per andare a lavorare come minatore nel bacino carbonifero nei pressi di Valenciennes, nel Nord della Francia. Questa esperienza segnerà profondamente il suo futuro di intellettuale. Come ebbe a dire successivamente, l’esperienza in miniera gli permetterà di comprendere il funzionamento delle dinamiche sociali in maniera molto più penetrante della formazione sui libri. In miniera, le contraddizioni del sistema capitalistico non avevano bisogno di implicazioni organizzative per essere interpretate, ma si presentavano in maniera immediata nel rapporto di sfruttamento insito nella compravendita di forza lavoro.
Terminata nel 1947 l’esperienza in miniera, Touraine scopre come sia possibile occuparsi dell’organizzazione del lavoro operaio che, messo al margine dal mondo accademico ufficiale francese, riacquistava centralità attraverso le grandi inchieste, soprattutto nordamericane. La classe operaia diventa quindi il centro dei suoi interessi e, possiamo dire, già allora si gettavano le basi per la costruzione di quella che successivamente verrà definita come la “Sociologia dell’azione”.
Lo sforzo intellettuale che compie durante tutta la sua vita, infatti, va nella direzione di muovere una decisa critica all’impostazione struttural-funzionalista di stampo parsonsiano che per un lungo periodo di tempo resterà la sociologia ufficiale, il pensiero mainstream. Touraine, di una società, non nega l’esistenza di vincoli strutturali, e nemmeno dell’impianto normativo che ne regge la costruzione ideologica, ciò che rifiuta, sin dall’inizio, è che una certa manifestazione non rappresenti una condizione data quanto, piuttosto, essa sia soltanto una evidenza fenomenologica di un determinato impianto sociale. L’esistenza, in qualunque periodo, di una determinata società, non rappresenta altro che una istantanea scattata da un solo ed unico punto di vista. La società, per Touraine, è costantemente attraversata da tensioni, da lotte, da conflitti che la riplasmano incessantemente, anche seguendo percorsi non lineari. È all’interno del presente che le trasformazioni nascono e prendono forma.
Ciò che domina già il nostro presente è il lungo e tortuoso movimento attraverso il quale stiamo riscoprendo l'azione sociale. La linea retta non è il percorso più breve da un punto all'altro della storia delle idee o della storia in generale. Partiamo da un'immagine cristallografica della società. La società, come un cristallo, come una struttura, come un sistema capace di riprodursi, come un codice e come una regola. E vediamo da abbastanza tempo, proprio all'estremo opposto dell'orizzonte intellettuale, emergere l'opposto, il desiderio o il rifiuto (Touraine 1977, p.92).
La società si presenta viva, in fermento, pronta a creare le proprie possibilità di azione, in maniera tale e per come le condizioni storiche permettono. Di conseguenza, la sociologia non può definirsi che come lo studio dell’organizzazione delle interazioni che una collettività riesce a produrre in un determinato momento storico. Le società umane sono capaci di produrre e modificare i loro modelli di funzionamento, ovvero creare una conoscenza di sé stesse, investire una parte del prodotto dell’attività per trasformare la produzione e costruire un’immagine della propria creatività.
L’azione sociale viene intesa da Touraine come azione storica, come essenza del conflitto con cui le società si misurano incessantemente per difendere o per abbattere un determinato sistema storico d’azione. In ogni dato momento storico, ogni società diventa il luogo di tensione tra un attore che esercita il proprio ruolo dominante, plasmando il sistema storico d’azione alla stregua di una struttura ordinata entro cui far valere il proprio dominio, e un diverso attore che tende, attraverso l’innovazione culturale o i movimenti sociali, a scardinare questo ordine.
Touraine sottolinea che questo confronto non è espressione di crisi o di una certa patologia insita in un determinato sistema sociale ma, al contrario, è il modo prioritario attraverso cui una società proietta sé stessa in avanti. In tale senso il compito della sociologia diventa quello di studiare l’insieme degli orientamenti culturali da cui prendono forma le relazioni tra gli attori e l’ambiente e delle situazioni di attrito che esse possono generare. Il confronto non viene più concepito come l’espressione di principi generali cristallizzati in situazioni metafisiche o eventi specifici posti al di sopra della capacità d’intervento degli attori.
La storicità viene vista, invece, come il luogo entro cui si produce un lavoro della società su sé stessa. I modelli di funzionamento dati all’interno di un determinato sistema storico sono la base entro cui le società umane possono produrre e modificare i loro modelli di funzionamento, ovvero creare la conoscenza di sé stesse su cui investire una parte del prodotto dell’attività per trasformare la produzione e costruire un’immagine della propria creatività (Rebughini 2009; Touraine 1978).
Questa è la sociologia dell’azione di Touraine, che non è una sociologia dei valori, ma uno studio sulla creazione dei valori, intesi come orientamenti normativi dell’azione, la cui ragione d’essere non deve essere cercata altrove che nell’azione stessa. Questo significa che il soggetto, attraverso un duplice movimento, proietta al di fuori di sé un oggetto e afferma la propria autorità su di esso, manifestando così la propria capacità di agire.
Ma Touraine ha anche la capacità di leggere i mutamenti sociali come punti di saturazione e di rottura dei sistemi storici d’azione. Nel suo testo forse più famoso, La produzione della società del 1975, riesce a cogliere il momento del declino della storicità basata sulla produzione industriale già preconizzando ciò che verrà dopo, una società postindustriale, una società in cui creatività e conoscenza scientifica giocano un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistico, a scapito dell’utilizzo della forza fisica. Touraine è esplicito: non si tratta di una forma di adeguamento alle mutate caratteristiche esterne, il passo è molto più deciso. Rifiuta l’idea che il passaggio da un tipo di storicità ad un altro possa consistere soltanto in un processo di adattamento da parte di un insieme di organizzazioni che reagiscono strumentalmente per garantire la propria sopravvivenza.
L’affermarsi su vasta scala di valori centrati sulla esaltazione della concorrenza e del liberalismo economico, e in cui il conflitto di classe tende a minimizzarsi al crescere sistemico della complessità, non bastano da soli a segnare la necessità di pensare ad un nuovo tipo di società (Touraine 1975, p. 216). Nella società post-industriale le forme di dominio diventano più diffuse e diversificate, con ordini meno vincolanti ma più penetranti, con livelli di organizzazione economica in grado di raggiungere singolarmente ciascun individuo fino ad assoggettare le stesse funzioni biologiche (Ivi, p. 218).
È chiaro che, se le forme di dominio si estendono così in profondità, la collocazione all’interno di quella che era la classe operaia, nella nuova composizione della forza lavoro, subisce una modificazione. Nella nuova condizione, le forme di dominazione non sono collocabili immediatamente all’interno della struttura produttiva. È la società, in via di principio, ad essere utilizzata come fonte potenziale di profitto.
Questo nuovo tipo di società finisce col trovarsi schiacciata tra un individualismo montante e un crescente allentamento dei legami sociali. Le analisi sulla società liquida di Zygmunt Bauman, del rischio di Ulrich Beck, ma pure la chiusura di natura biopolitica di Foucault, sembrano disegnare una decisa virata verso un superamento dello schema teorico touraniano fatto di perenne tensione tra schemi contrapposti in lotta per il controllo della società. La caduta del muro di Berlino, la fine delle ideologie, l’ondata di riprivatizzazione del privato sembrano seppellire la stessa idea che si possano affermare dei movimenti interni alla società come momento di ideazione di cambiamento.
Come lamenta lo stesso Touraine (2008, p. 95), il contenuto semantico del concetto di movimento sociale viene trascinato in basso relegato a forma fenomenica di ogni minima discrepanza che possa insorgere in una società sempre più addomesticata. La famosa profezia di Margaret Thatcher, secondo cui la società scompariva dietro l’incedere trionfante di individui consapevoli delle loro capacità, metteva in seria difficoltà la persistenza, anche teorica, che da qualche parte vi fosse un soggetto capace di immaginare una azione conflittuale. In Italia sono gli anni dell’affermazione del berlusconismo come momento di superamento di vecchie fratture politiche, della Milano da bere, dell’idea che, tutto sommato, la politica stessa fosse ridondante e, alla meno peggio, andava riformata con un bipolarismo di facciata pensato per tenere saldo il sistema.
Non era una nostalgica voglia di ritorno a forme autoritarie quanto, piuttosto, la presunta capacità che condizioni strutturali di concertazione potessero allontanare la necessità di quel conflitto che, invece, Touraine inquadrava come ineludibile centro propulsore di ogni significativa possibilità di cambiamento. Da un lato la pretesa del “ghe pensi mi” che celava la possibilità di rendere paternalisticamente possibile ogni ricomposizione sociale e, dall’altro, il buonismo di sinistra funzionale alla sterilizzazione del conflitto, stavano lì a significare che le soluzioni erano a portata di mano, già insite nel sistema. Sulla scia di queste trasformazioni, la globalizzazione si abbatte con la pretesa di eliminare ancora di più ogni residuo vincolo che ancora si frapponeva tra la produzione di merci e la realizzazione dei profitti. Touraine chiama ciò «fine del sociale».
Ma la fine del sociale, in realtà è solo la fine di un pezzo di storicità che, pur venendo fuori da un disfacimento sistemico, lascia aperti molti spazi problematici. Generando effetti collaterali non desiderati, la globalizzazione è molto lontana dal riuscire a produrre una società includente e pacificata come era nel proprio manifesto istitutivo. La pesante deregulation azzera gli strumenti regolativi di natura economica che erano stati i punti di mediazione di tutti i conflitti sviluppatisi durante il secondo dopoguerra. La fine delle garanzie legate al mercato del lavoro, la crescita di una nuova classe di working poor, una piccola borghesia che sperimenta paure ed incertezze sempre più strutturali generano risposte sempre più in sintonia con chiusure neo-comunitariste dando evidenza empirica della crisi di una figura come lo Stato-Nazione che era stato il perno dei sistemi democratici e dello stesso principio di razionalizzazione.
I flussi migratori constanti diretti verso le economie più centrali amplificano ancora di più il senso di inadeguatezza diffuso. Ma Touraine avverte che, ancora una volta non siamo alla fine della storia. La sua sociologia si dimostra essere perennemente dinamica, capace, in sostanza di includere nell’analisi ogni variazione che possa essere portatrice di un elemento di criticità verso lo stato dei fatti. Se la sociologia in sé non può essere pensata come una scienza della statica sociale, la particolare declinazione che ne dà Touraine lo è ancora di meno.
Leggendo e fiutando la storia non già come un insieme di avvenimenti concatenati che trovano nel passato la loro specificità ontologica, ma ribaltando la figura dell’«angelo della storia» pensato da Walter Benjamin, egli riesce a scorgere nelle macerie derivanti proprio dalla distruzione della società (Ivi, p. 117) e la possibilità che si affermi un nuovo soggetto individuale. Pur vivendo una condizione di individualizzazione senza alcun legame significativo con i propri gruppi di appartenenza e schiacciato sotto il peso inconsistente della propria identità, l’individuo postmoderno resta comunque capace di porre in essere tutte le contraddizioni che il modo di funzionamento della storicità dominante impone. L’individuo anche in questa condizione non può che farsi soggetto. Un soggetto individuale che legge le forzature sistemiche ma che si libera dalla camicia di forza che lo lega ad una atomizzazione sociale che lo produce in perenne competizione con altri. Laddove la ricerca del massimo profitto, a scapito di ogni altra considerazione etica si impone, essa solleva contraddizioni sempre più crescenti che coagulano nelle nuove modalità di opposizione tipica dei movimenti.
I movimenti sociali postmoderni si comportano esattamente come quelli di epoche passate. Obbediscono alle stesse regole e presentano le identiche caratteristiche, ossia una combinazione di un principio di identità che leghi a sé gli individui trasformandoli in soggetti, di un principio di opposizione alla società dominante e di un principio di totalità che renda i soggetti attori del cambiamento (Touraine 1975, p. 413). Manuel Castells (2012), che è stato allievo di Touraine, è sulla stessa lunghezza d’onda ma coglie la necessità di rideterminare gli spazi di esistenza dei nuovi movimenti che vivono, si organizzano e lottano rompendo l’unitarietà di spazio e tempo che l’affermarsi della società in rete permette e sfruttando le peculiarità di porsi come movimenti inquadrabili in una società che opera e si organizza nel flusso informativo globale.
La lotta per il controllo del sistema d’azione storico come elabora l’altro suo allievo, Michel Wieviorka (2005), avviene attraverso un processo per cui gli individui e i gruppi che si costruiscono come attori di azione collettiva, sono immersi all’interno di un processo dialettico di soggettivazione e di desoggettivazione. Sono processi attraverso i quali si costruisce e si trasforma la coscienza degli attori ed in base a cui essi prendono decisioni. La soggettivazione porta al “soggetto” capace di agire, perché capace di pensarsi come attore e di trovare le modalità del passaggio all’azione; la desoggettivazione invece porta negazione del soggetto alle forme decomposte e invertite del soggetto.
All’interno della società dei flussi, le forze contrarie al cambiamento innescano processi di rifiuto di qualsiasi legittimazione dei soggetti. Questo ci lascia in eredità il pensiero di Touraine, ossia gli strumenti concettuali di una sociologia dell’azione che permetta di riuscire a cogliere ovunque, in ogni condizione, l’esistenza di una possibilità anche minima o semplicemente potenziale di cambiamento.
Riferimenti bibliografici
M. Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, EGEA Università Bocconi Editore, Milano 2012.
P. Rebughini, Alain Touraine: modernità, soggetto, movimenti, in Sociologie contemporanee. Bauman, Beck, Bourdieu, Giddens, Touraine, a cura di M. Ghisleni, W. Privitera, UTET, Torino 2009.
A. Touraine, La produzione della società, il Mulino, Bologna 1975.
Id., Un désir d’Histoire, Éditions Stock, Paris 1977.
Id., La voix et le Regard, Les Éditions du Seuil, Paris 1978.
Id., La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano 2008.
M. Wieviorka, La violence, Hachette, Paris 2005.
M. Wieviorka, Neuf leçons de sociologie, Editions Robert Laffont, Paris 2008.
Alain Touraine, Hermanville-sur-Mer 1925 – Parigi 2023.