Lo studio d’artista è il luogo del transito per eccellenza. È lo spazio in cui si avvera la trasformazione della materia, il mistero della creazione. Ogni atelier è «un’entità permeabile e mutevole», ha scritto James Hall (Hall 2022, p. 10); è una rete pluridimensionale attraversata da corpi, oggetti, sentimenti, è il luogo in cui le idee vengono inesorabilmente costrette alla presenza.

Nel nuovo libro di Vincenzo Trione, Prologo celeste, pubblicato da Einaudi nel novembre del 2023, siamo condotti al cuore dei luoghi in cui si forma l’opera di Anselm Kiefer. Tra Barjac e Croissy, i due paesini francesi che ospitano gli studi di questo artista transplanté, l’autore ci fa immergere in quelle che sembrano città impossibili, opere in costante divenire, enormi cataloghi oggettuali destinati a crescere senza progetto. Il tentativo è quello di intercettare il codice sorgente – la motivazione e l’origine dell’atto creativo – ricostruendo i percorsi dell’invenzione che hanno portato a quelle precise soluzioni formali. «Rispetto alle opere d’arte», scrive Trione (Trione 2023, p. 64), «gli atelier detengono la stessa valenza che i prologhi hanno per i libri o i portali per le cattedrali». Ed è proprio per questo motivo che varcare la soglia di questi spazi garantisce un accesso privilegiato alla pratica degli artisti: permette di comprenderne meglio le fonti, le tecniche, il contesto; ci catapulta nei meccanismi che governano l’ideazione e la realizzazione dell’opera.

Prologo celeste prende avvio da La Ribaute di Barjac, sulle pendici delle Cevennes, dove Kiefer si insedia all’inizio degli anni novanta su invito dell’allora ministro della cultura francese Jack Lang. In quest’ampia area – circa trenta ettari – che in origine accoglieva un setificio, l’artista tedesco trasferisce gran parte del contenuto dei suoi atelier precedenti e modifica radicalmente il paesaggio. Con l’aiuto di un grosso macchinario chiamato “le bull”, Kiefer crea tunnel e spazi ipogei, costruisce padiglioni e case di vetro, trasformando quest’angolo di Barjac in un mondo a parte nel bel mezzo della campagna francese.

Nell’approcciare quest’opera d’arte totale, Trione ci restituisce un’esperienza che non è solo visiva, ma sonora, aptica, emotiva. Tra le stradine desolate di La Ribaute ci fa compagnia l’incessante gracidare delle rane, e mentre procediamo a tentoni nella fitta rete di cunicoli scavata nel sottosuolo, ci accorgiamo di essere ormai immersi nella mente dell’artista. A Barjac, Kiefer sembra rielaborare senza sosta il lutto collettivo della guerra. Lo scenario che abbiamo davanti assomiglia a una sorta di paesaggio postbellico. Sotto i nostri occhi, un’infinita distesa di frammenti; opere e macerie che non smettono di moltiplicarsi: blocchi di cemento disseminati nel terreno, armature di ferro e sculture acefale, quadri giganteschi che inglobano reliquie e costellazioni, un anfiteatro pieno di container usati, e, ancora, serre, tunnel, gallerie, ponti sospesi, una piccola scultura innalzata a Ra, il Dio egizio della creazione. E poi le torri, sontuose e crollanti, architetture effimere che testimoniano il tentativo (sempre fallito) di cristallizzare l’attimo che precede la fine.

La Ribaute è un «cronorifugio» della nostalgia (ivi, p. 33), uno spazio eterotopico in cui Kiefer ha scelto di auto-esiliarsi per riprogettare il passato e contestare il presente, ma è anche un archivio di memorie letterarie, cinematografiche, archeologiche. Dopo aver attraversato l’opus magnum di Barjac, il racconto di Trione ci conduce a Nord di Parigi, nel piccolo comune di Croissy-Beaubourg. In questa zona periferica, poco distante dall’aeroporto Le Bourget, Kiefer ha allestito – in uno spazio di circa 36.000 metri quadrati – due enormi padiglioni chiamati Ninsun ed Enkidu. Si tratta di due spazi differenti: il primo è composto da un arsenale pieno zeppo di reperti e cianfrusaglie, da un’immensa biblioteca e da quello che l’autore definisce “l’atlante”: un’area privata in cui l’artista sembra celare il segreto delle sue creazioni. In questo ambiente, molto simile a un piccolo laboratorio, Kiefer ordina i numerosi appunti visivi in una serie di moodboard in cui affianca ritagli fotografici, frame e immagini provenienti dalla rete. «Mostrati solo a pochi ospiti ammessi in questi spazi intimi, questi brogliacci mai esposti sembrano enunciare una precisa estetica: l’arte è un fuoco, alimentato da tutto ciò che le sta intorno» (ivi, p. 126). Enkidu, invece, è un hangar più piccolo, dove si possono incontrare installazioni, sculture, opere abbandonate in attesa di essere riprese.

L’atelier di Croissy è una «sterminata cantina poco illuminata» (ivi, p. 148), una stanza delle meraviglie dove convivono macchinari industriali e quadri in fase di esecuzione, bilance gigantesche e progetti di mostre passate e future, minerali ammassati sugli scaffali e libri fatti di piombo. In questo luogo dell’eccetera, Kiefer sembra dar sfogo a un impulso collezionistico dissennato. Incurante di gerarchie e differenze, raccoglie quegli innumerevoli brandelli di mondo per dissociarli dal quotidiano, sottrarli all’insignificanza, renderli finalmente estranei al flusso del tempo. Naturali conseguenze del respiro cosmico della sua poetica, gli atelier di Barjac e Croissy sono il prologo di un’opera che non smette di annunciare la «catastrofe della rappresentazione» (ivi, p. 211), ma sono anche la testimonianza diretta di un metodo di lavoro. Richiamandosi a tre grandi figure del mito – Prometeo, Efesto e Sisifo – Trione svela le influenze letterarie, filosofiche e artistiche di Kiefer; indaga dall’interno la costruzione dei suoi micromondi, cerca di carpire il mistero profondo che li ha generati.

Ed ecco allora le opere, tormentate e imponenti, superfici magmatiche dal «timbro primario, quasi barbarico» (ivi, p. 247), accomunate da un medesimo intento: saldare lirismo e figurazione. Con l’attitudine del profanatore e dell’alchimista, nelle sue opere Kiefer celebra un «realismo della differenza» (ivi, p. 211): intrattiene una relazione frontale con le cose del mondo, si appropria del vero e poi lo manipola, lo tradisce, e in questa moltitudine di salti laterali apre squarci che ce lo fanno avvertire come un luogo prossimo, ma essenzialmente irraggiungibile, proprio come accade nei racconti assurdi di Franz Kafka.

«Kiefer dipinge paesaggi che disarticolano la patina stesa dal linguaggio sulla realtà; spezza le rappresentazioni esatte; scioglie ogni soggetto dalle bende in cui giaceva mummificato; inventa, per le cose e le loro parvenze, un’altra vita, più vicina al paradiso perduto, dove la materia non era scissa dall’anima. È il futuro della vita interiore, dove pietre, feci, navi, libri, reliquie, paglia, cenere, piombo e magmi si accatastano, fino a tornare a essere vivi, palpitanti». (ivi, p. 208). In filigrana, emerge il ritratto di un artista originario e «impolitico» (ivi, p. 49), che non aderisce alle urgenze del tempo, che pensa l’arte come una forma di resistenza, in dialogo costante con il passato. Nel suo «tentativo per far proseguire il destino della pittura» (ivi, p. 236), con spirito di continuità, Kiefer convoca alcuni compagni di strada. Innanzitutto, Vincent Van Gogh, al quale l’artista tedesco, nel 2019, dedica una lunga lecture alla Tate Britain di Londra, ma anche Emil Nolde e William Turner, due artisti radicalmente distanti, a cui Kiefer ha spesso guardato per sfumare i confini tra astrazione e rappresentazione.

Accompagnato da un ricco apparato iconografico – che, oltre alle immagini delle opere dell’artista e alle installation view delle sue mostre, contiene diversi scatti dello stesso Kiefer – il libro di Trione non è solo un racconto in prima persona degli atelier di Barjac e Croissy e del metodo di lavoro di uno dei massimi artisti contemporanei. Prologo celeste sembra anche un richiamo alla critica come esercizio autonomo e segretamente narrativo. Ce ne accorgiamo dalle descrizioni dettagliate di La Ribaute, dall’uso camaleontico degli aggettivi, che sembra mimare e rincorrere la complessità dell’opera kieferiana, ma anche dalla scelta di alcuni riferimenti bibliografici. Oltre a un’ampia e aggiornata letteratura sull’opera di Kiefer, e agli scritti dell’artista, in Prologo celeste fanno capolino diverse presenze “impreviste”: da Jorge Luis Borges a Italo Calvino, da Winfried Sebald a Milan Kundera, da Daniele del Giudice a Hisham Matar. Sono queste, tra le altre, alcune voci chiamate a penetrare l’universo di Kiefer, assieme a quelle di poeti, scrittori e filosofi che lo stesso artista “frequenta” da tempo – Paul Celan, James Joyce, Andrea Emo.

Lo scarto critico decisivo, tuttavia, sta nel coniugare quest’attenzione alla dimensione narrativa con un approccio di tipo genealogico, che mira a indagare il processo di formazione dell’opera, i rimandi consapevoli o inconfessati, i materiali e le tecniche adoperati, i riferimenti culturali e storico-artistici. Riprendendo la lezione della filosofa ungherese Ágnes Heller, che ha ricordato come l’opera d’arte non sia “soltanto una cosa”, ma anche una «persona» (Heller 2017, p. 14), Trione si sofferma sul carattere e l’identità dei lavori di Kiefer, li cinge d’assedio occupando lo spazio che li ha generati e ce li restituisce smontati, più vicini e più intensi di prima. Prologo celeste è dunque un viaggio nell’opera di uno dei più importanti artisti degli ultimi cinquant’anni, ma anche (e soprattutto) un’indicazione di metodo. Un invito a guardare dal vero i dipinti, le sculture, le installazioni, a visitare le mostre e gli atelier, a non dimenticare il piacere dell’esperienza artistica, a non perdere mai di vista il contatto con l’opera d’arte.

Riferimenti bibliografici
J. Hall, Lo studio d’artista. Una storia culturale, Einaudi, Torino, 2022.
Á. Heller, La dignità dell’opera d’arte (2008), trad. it. di Mattia Fiorilli, Castelvecchi, Roma 2017.

Vincenzo Trione, Prologo celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer, Einaudi, Torino 2023.

*L’immagine presente nell’articolo e in anteprima: Die Frauen der Antike (Le donne dell’Antichità), installazione con diciassette sculture in una serra, 1999-2002. Eschaton Kunststiftung, La Ribaute, Barjac. (Foto di Charles Duprat). © Anselm Kiefer.

Tags     arte, spazio, Vincenzo Trione
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