L’ultimo corso tenuto da Fredric Jameson (1934-2024) alla Duke University si intitolava Time and History, due temi che avevano costituito il nucleo della sua ricerca almeno a partire dall’Inconscio politico (1981) e sui quali non aveva ancora cessato di riflettere. Jameson infatti continuava a ragionare sui modi in cui la Storia veniva testualizzata e messa in forma, proprio quella Storia che la logica culturale postmoderna aveva iniziato a trascurare e che invece per lui era una «causa assente», era l’orizzonte intrascendibile in ogni lettura ermeneutica. 

Nelle sue lezioni Jameson poteva parlare nello stesso giro di frase del tempo in Agostino e dell’uso di un selon in Mallarmé, poteva discutere delle interpretazioni dell’Antigone da Hegel a Judith Butler e, se non aveva voglia di farlo, faceva proiettare film come Culloden di Peter Watkins (costringendo alle 9 di mattina il pubblico a vedere giacobiti trucidati dalle truppe britanniche) per poi spiegarlo con Lukács (e qualcosa di simile faceva anche nei libridove ad esempio Inception è fatto a pezzi appoggiandosi su Adorno). Dava prova, così, di una cultura enciclopedica che impressionava e di una conoscenza planetaria del romanzo moderno a cui accompagnava una grande generosità pedagogica. Però, quello che impressionava maggiormente era che quella stessa cultura enciclopedica non era un catalogo, e nemmeno un contenitore da cui un uomo che aveva letto tutto estraeva frammenti di sapere: anzi, la cultura di Jameson sembrava quasi voler contrastare il miscuglio postmoderno perché si offriva sempre situata e perché i nessi logici erano importanti quanto i contenuti. Ripeteva che tutto quello a cui si dovrebbe restare estranei è il ricorso alle «unintended consequences» alle quali si appiglia chi ignora la sfera materiale e chi, insomma, non storicizza.

Jameson, invece, aveva fatto del motto “Storicizzare sempre!” la base di un discorso critico che ha attraversato un cinquantennio della nostra storia recente scandendo decenni particolarmente “caldi”: del 1971 è Marxismo e forma, del 1981 L’inconscio politico e del 1991 Postmodernismo. Sono questi i titoli che restano decisivi tutt’oggi per cogliere i tratti salienti di un pensiero vastissimo e tuttavia coerente, perché la sua bibliografia racconta la storia di chi ha sempre fatto fede su pochi e stabili punti di riferimento: Marx, la Scuola di Francoforte, Lukács, Auerbach (suo professore a Yale) e più tardi Brecht e Benjamin.

È la grande tradizione del marxismo europeo ma vista da una prospettiva decentrata, vista cioè da un’America che in quegli anni accoglieva il pensiero decostruzionista della Theory e che non dava fiducia al metodo dialettico difeso da Jameson a partire dal 1971. In Marxismo e forma ben si delineava quanto avrebbe messo a sistema dieci anni dopo nell’Inconscio politico: suo intento era quello di proporre una critica che fosse descrizione e al contempo diagnosi, rettifica di un’opera d’arte in cui andava ricercata la «ragione sociale» (con Adorno), cioè la dimensione socio-economica che è immanente a ogni testo «come il concavo al convesso». Jameson considerava l’opera come una totalità, ma non per questo la riteneva autonoma: «change the style? First change the world!», aveva infatti scritto in The Ideology of Text (1976). Ecco perché, per interrogare un artefatto culturale, Jameson ricorreva al “metacommentario”, metodo che attingeva a vari localismi che venivano infine convogliati nel marxismo, unico metodo capace di storicizzare non solo gli strumenti via via utilizzati, ma anche se stesso. Solo un pensiero dialettico di questo tipo poteva evitare di restare bloccato nelle «prigioni del linguaggio» (Jameson 1972), avendo la consapevolezza di essere vulnerabile alla storia e dunque processuale, mai definitivo: «il pensiero dialettico è doppiamente storico: non solo i fenomeni con cui opera sono storici, ma esso deve anche scongelare i concetti stessi con cui sono stati intesi, e interpretare quella loro congelata immobilità, la loro categoricità come fenomeno a sua volta storico» (Jameson 1975, p. 373). 

Nella concezione di Jameson, al critico spettava riconoscere simultaneamente nel testo la sua dimensione ideologica e la sua dimensione utopica, cioè quella che non restava passiva rispetto allo sfondo storico di provenienza. Se è vero che per lui ogni testo era politico, questo non comportava lo scadere nel marxismo volgare: al contrario, nei suoi scritti si vede gradualmente affinarsi lo sforzo di sgrezzare il meccanico passaggio dalla struttura allasovrastruttura, arrivando a mostrare in Postmodernismo come talvolta la stessa struttura si possa sovrastrutturare. È qui che troviamo il Jameson forse più vicino a noi, quello che ha saputo fare una diagnosi della norma egemonica di un tempo in cui la carica emancipatrice e conflittuale del modernismo ha ceduto il passo a una piatta estetizzazione, a una diffusa perdita di profondità e a un presentismo insensibile alla Storia. Di quel testo sono rimaste celebri le pagine sul confronto tra Van Gogh e Warhol, sul Westin Bonaventura Hotel di Portman e quelle sulla casa di Frank Gehry a Santa Monica: pagine in cui Jameson era riuscito a cogliere in tempo reale l’affermarsi della logica di un tardo-capitalismo che stava colonizzando tutte le forme di vita e che accettava come unica metanarrazione quella della fine delle metanarrazioni

In questo processo di trasformazione della cultura in “seconda natura” pare che portiamo tutt’ora i segni, dato che il senso comune tende a far prevalere l’individuale sul sociale e il provvisorio su ciò che è stabile e verificabile sulla lunga durata. L’ultimo Jameson, poi, descrivendo i passaggi delle epoche storiche, aveva compreso che la modernità aveva progressivamente sostituito il concetto di sostanza con quello di processo, e che la postmodernità stava a sua volta imponendo quello di una simultaneità confusa trascinandoci in una notte in cui tutte le vacche sono nere (spiegava simpaticamente questa logica della simultaneità con l’esempio calcistico dei giocatori di club che in nazionale potevano giocare contro i loro stessi compagni di squadra).

Ma a tutto ciò che sembra sincronico, Jameson ha insegnato a opporre il piano diacronico, cioè a fare una disamina del presente storicizzandolo e cercandone i presupposti materiali. Oggi, quando nessuno sembra mettere più in discussione il capitalismo in sé e quando il sistema vigente viene naturalizzato continuamente – è questo in fondo il «realismo capitalista» di cui parla Mark Fisher – di Jameson si può recuperare lo sguardo verso la totalità e la posizionalità di un pensiero che cerca di smascherare i nessi tra struttura e sovrastruttura per rivelare contraddizioni. Dietro il motto “Storicizzare sempre!” c’è un gesto intellettuale che rappresenta un’opposizione alla logica culturale della stagnazione: registrare l’egemonia del “There is no alternative” non significa apologizzare quel fenomeno, ma significa coglierne le radici per muoversi poi sul piano della prassi. 

In Italia Jameson è stato tradotto poco e i libri pubblicati non vengono ristampati ormai da tempo. Fu soprattutto negli anni novanta che le sue teorie sul postmoderno vennero poste al centro del dibattito da Luperini e Ceserani; ma, prima di loro, a cogliere la posta in gioco di un’operazione di difesa del marxismo critico in opposizione alle teorie decostruzioniste fu Franco Fortini, che nel 1975 introdusse Marxismo e forma (Liguori). Quello stesso Fortini che anni dopo avrebbe dedicato versi importanti – «Gli uomini sono esseri mirabili» – al più grande critico marxista del Novecento, morto proprio in quel 1971 che è stato anche l’anno del vero esordio di Jameson; se è troppo vederci un simbolico passaggio di testimone, dietro questa coincidenza si può almeno immaginare un gioco di quell’«astuzia della ragione» cui Jameson ha insegnato a guardare dalla prospettiva del materialismo dialettico. 

Riferimenti bibliografici
M. Fischer, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018.
F. Jameson, Marxismo e forma. Teorie dialettiche nella letteratura del XX secolo, Liguori, Napoli 1975.
Id., The Prison-house of Language: A Critical Account of Structuralism and Russian Formalism, Princeton UP, Princeton 1972.
Id., The Ideology of Text, in «Salmagundi», 31/32, 1975-1976.
Id., L’inconscio politico. La narrazione come atto simbolico, l’interpretazione politica del testo letterario, Garzanti, Milano 1990.
Id., Tardo marxismoAdorno, il postmoderno e la dialettica, Manifestolibri, Roma 1994.  
Id., Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007.
Id., The Antinomies of Realism, Verso, London 2013. 

Fredric Jameson, Cleveland 14 aprile 1934 – Durham 22 settembre 2024.

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