I comunisti italiani riapparvero sullo schermo nel 1943, con il personaggio dello “spagnolo” in Ossessione di Visconti: quello fu l’avvio di un rapporto contrastato ma tutto sommato fecondo tra il “partito nuovo” di Togliatti e la settima arte. Anche se secondo il canone ottocentesco che presiedeva alla visione comunista della cultura i cineasti non erano considerati alla stregua di scrittori, poeti o pittori, l’attenzione per il più influente dei mass media (almeno tra gli anni ’30 e gli anni ’60) fu costante. Infatti, fino agli anni ’60 non se ne occupò più di tanto la Commissione culturale quanto quella Stampa e propaganda.

La linea del Pci rispetto alla cinematografia si articolò in due modi. Da un lato, il partito si attrezzò per una propria produzione di film a carattere documentario che dovevano, in particolare fino alla riforma della televisione del 1975, controbattere la comunicazione governativa dell’Istituto Luce, della Settimana INCOM e, poi, dopo il 1954, della Rai. E questo cinema fu fino alla fine degli anni cinquanta fortemente contrastato dalla censura fino a bloccare quasi del tutto la circolazione dei film di comunisti o di “compagni di strada”. Si trattò di film-documentari che contribuirono a mostrare un volto diverso dell’Italia, quello delle promesse non mantenute del “miracolo economico”, della povertà, delle ingiustizie, delle lotte operaie e contadine, dell’emigrazione che rimaneva fuori dagli schermi controllati dalla Democrazia cristiana. Il Partito comunista a un certo punto cercò anche di realizzare un vero e proprio contro-telegiornale, Terzo Canale, come poi si sarebbe chiamata la rete a loro concessa negli anni ottanta.

Dall’altro lato, per quanto riguarda il cinema di finzione il Pci adottò una linea diversa. Togliatti fu molto chiaro su questo punto: i cineasti comunisti dovevano portare le loro idee all’interno del cinema tout court e non dare vita a una cinematografia del Pci, che avrebbe avuto una circolazione più limitata. Ciò «avrebbe indebolito la capacità di tanti cineasti anche lontani dal Pci ma “obiettivamente” anticonformisti, di diffondere i loro messaggi tra le masse, e orientarle a poco a poco verso gli ideali socialisti».

Anche se allora non ci fu piena consapevolezza di questo fatto, la “sinistra cinematografica” – di cui si parlerà in un convegno organizzato in collaborazione con AAMOD e Fondazione Gramsci a novembre 2021 – riuscì a conseguire una sostanziale egemonia in senso gramsciano nel cinema “d’autore” italiano. Un cinema che fu il fenomeno culturale più rilevante e cosmopolita della storia dell’Italia repubblicana. E questo nonostante il fatto che la maggior parte dei registi non fossero iscritti al Pci e che molti di quei film non piacquero ai critici e ai dirigenti del partito magari perché troppo “d’avanguardia”, o critici verso il Pci stesso, o perché i temi politici erano coniugati con il cinema di commedia.

Un aspetto ancora poco indagato è il modo in cui comunisti furono rappresentati dal cinema italiano del secondo dopoguerra che, nella sua ricchezza di voci e di generi, ha avuto anche la caratteristica di raccontare il paese e quindi anche i comunisti che furono una parte importante della società italiana – e non un’entità separata come vuole la vulgata antipartitica degli ultimi decenni. È impossibile anche solo provare a nominarli tutti i film in cui si vedono in scena i comunisti, perché sono tanti e diversissimi fra loro: da Ossessione fino a Palombella rossa, uscito nelle sale alle soglie della Bolognina. Limitandoci a qualche spunto, non si può che prendere le mosse dal neorealismo, dai partigiani di Paisà, Roma città aperta, Il sole sorge ancora, ai militanti di Ladri di biciclette nella sequenza con una sezione del Pci, in cui si parla del problema della disoccupazione e in cui, per la prima volta, nel film più famoso del neorealismo, il Pci appare sia pure brevemente come il partito dei lavoratori e dei più poveri.

Significativo della stagione successiva, quella più dura della guerra fredda, in cui si cercò di far scomparire i comunisti dagli schermi, è Achtung banditi: soprattutto per le sue disavventure produttive: il divieto di usare armi vere o anche a salve, le censure sulla sceneggiatura e sul film finito, ecc. L’asprezza dello scontro emerse anche nel “neorealismo rosa”: come in Due soldi di speranza con una famiglia alla disperazione perché il protagonista diventa comunista. O nel celeberrimo e bonario filone di Don Camillo. Un film che anticipò temi sviluppati successivamente fu Europa ’51 di Rossellini, con il giornalista comunista, razionalista e materialista che si contrapponeva al personaggio di Irene e alla sua concezione spirituale della vita. Se, come pare, il padre operaio un po’ ingenuo di Bellissima di Visconti fece arrabbiare Togliatti, emerse in vari film una visione cupa della classe lavoratrice. Come testimoniarono Il ferroviere e L’uomo di Paglia di Germi, o Il grido di Antonioni. Una risposta a questa visione era nel finale di Rocco ai suoi fratelli con Ciro, l’operaio che guardava verso una prospettiva di riscatto politico e sociale, a differenza dei fratelli dilaniati dal dramma di ispirazione dostoevskiana.

All’inizio degli anni sessanta, nel quadro del massimo fulgore produttivo e creativo del cinema italiano, in molti film emerse con forza la disillusione, la fine delle certezze, le prime incomprensioni rispetto alle inquietudini del mondo giovanile (come in Prima della rivoluzione o i Sovversivi), il disorientamento di fronte a una civiltà che appariva sempre più prosaica e materialista, quella del «genocidio culturale» di Pasolini che, non a caso, mise in scena i sottoproletari. Allora apparve il comunista in crisi, spesso un ex partigiano deluso. Il film migliore di questo filone è Le stagioni del nostro amore di Florestano Vancini. Ma possiamo ricordare anche La ragazza di Bube di Luigi Comencini. Accanto alla poetica del dubbio, film più tradizionali parlarono della guerra e della Resistenza: come I sette fratelli Cervi o Italiani brava gente – genere su cui ironizzò l’episodio Scenda l’oblio dei Mostri. Le contraddizioni del Pci sulla morale e sui rapporti tra i sessi furono invece sottolineate in La ragazza con la valigia di Valerio Zurlini.

Negli anni d’oro del cinema politico due film paradigmatici furono Una vita difficile, che nel finale vedeva il riscatto del giornalista comunista con un recupero dei suoi ideali, e Le mani sulla città, in cui il consigliere comunale comunista napoletano (interpretato da un vero dirigente del Pci) si batteva contro la speculazione edilizia e la corruzione.

Il 1968 costituì un big bang nella presenza dei comunisti e delle loro idee: conobbero uno spazio crescente sugli schermi così come crebbero i loro voti nel corso degli anni ’70. Alle critiche dei sessantottini per aver abbandonato la bandiera della rivoluzione si affiancò la volontà di ripercorrere la storia del partito in chiave critica (Il sospetto di Maselli), nel quadro di un cinema che, esprimendo il mood di quegli anni, voleva contribuire a cambiare la società. Nel corso dei ’70 l’immagine dei comunisti cambiò in positivo e questo non si registrò soltanto nel cinema “d’impegno” ma anche nel cinema popolare: Colpo di stato, in cui si ipotizzavano le reazioni a una vittoria elettorale comunista; Franchi e Ingrassia ne I due onorevoli; La patata bollente, Mimì metallurgico, ecc. O film di ambientazione popolare ma diretti da registi impegnati come, un esempio per tutti, Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca di Scola. Senza dimenticare film storici più tradizionali come Il delitto Matteotti, Mussolini ultimo atto, o L’Agnese va a morire.

Due film particolarmente significativi di questa stagione furono C’eravamo tanto amati e Novecento. Nel secondo, di Bernardo Bertolucci, un regista che proprio in questi anni si avvicinò al Pci, la Liberazione era chiaramente proiettata su un presente in cui il partito poteva ancora una volta determinare una svolta politica di quella portata. Dalla metà del decennio, di fronte alla linea del compromesso storico con la Dc e al terrorismo di sinistra che contribuì a rendere afasico e a mettere in crisi il cinema politico italiano, il mood cambiò. Lo testimoniò, per esempio, Cadaveri eccellenti di Rosi, in cui emerse una visione pessimistica rispetto alle chances di trasformare veramente il Paese. Nel film di Rosi, in cui veniva assassinato un segretario comunista ritagliato sulla figura di Berlinguer, si criticavano l’attendismo e l’opportunismo del Pci.

Nel quadro di una profonda crisi produttiva del cinema italiano e della svolta moderata dell’inizio degli anni ‘80, i personaggi comunisti si diradarono sugli schermi. L’afasia e il ripiegamento sulla memoria rispetto ai grandi disegni complessivi furono le strade percorse dal cinema di sinistra fino a Palombella rossa, che mise in scena i tormenti dell’ultimo scorcio della storia di un Pci sempre più in crisi, identitaria e politica.

Tags     centenario, cinema, comunismo, PCI
Share