Altro che Madame Bovary: Charlie Brown c’est moi. Anzi: is me. Per Charles M. Schulz (mi raccomando, senza la “t”) non è mai finita l’identificazione con il personaggio che nel 1950 ha fatto iniziare quella meravigliosa striscia umoristica chiamata “Peanuts” (non da lui che detestava questo titolo, ma dal Syndicate che distribuiva il fumetto ai quotidiani).
Charlie Brown è diventato giustamente l’emblema di chi non solo ha il senso di inferiorità ma, in qualche modo, sa di essere inferiore e, con il proprio atteggiamento, fa in modo che le cose gli vadano male. Così Charlie Brown non riesce mai a far volare un aquilone, non riesce mai a colpire una palla vincente a baseball, non riesce mai a dichiarare il proprio amore alla ragazzina dai capelli rossi. Scrivo “fa in modo che” anche perché all’interno della striscia ci sono personaggi che cercano di insegnare a quel bambino dalla testa tonda questo: è proprio l’atteggiamento che si ha nei confronti delle proprie ambizioni a favorirne o meno il successo. D’altra parte, non è proprio così? Prima di rispondere, meglio attendere le ultime righe di questo pezzo.
Di certo è interessante scoprire come nell’arte l’aspetto psicologico giochi un ruolo determinante che spesso viene messo in secondo piano rispetto agli studi, alla formazione creativa e alla storia che gira intorno all’artista. In effetti penso che l’aspetto psicologico sia determinante in tutti i campi della vita, e anche la politica così come i grandi avvenimenti della Storia potrebbero (anzi, dovrebbero) essere esaminati partendo proprio da lì.
Nel caso in oggetto è doveroso dire questo: per Schulz il lavoro giornaliero sulle strisce dei suoi personaggi è stata una terapia fondamentale. La sua instabilità psicologica (descritta in tante interviste e nella sua biografia) era curata dalla certezza di avere quell’impegno, eseguito tutti i giorni alla stessa maniera, con orari precisi e rarissime eccezioni alla regola. Per molti fumettisti (mi viene da pensare a molti altri autori, e tra questi Jacovitti) lavorare entrando in un altro mondo è stata una sicurezza e una forma di autoipnosi capace di tenere lontani i fantasmi della mente e i tormenti della coscienza.
Il mondo esterno c’era e Schulz lo viveva, ovviamente. Fino a un certo punto però. Mi ha sempre molto impressionato quello che è accaduto nel corso di un’intervista di Schulz a “The Comics Journal” (una rivista statunitense di studio sul fumetto) alla fine degli anni ottanta. Nel 1989 i ricavi annuali su scala mondiale dei prodotti derivati dai Peanuts avevano raggiunto il miliardo di dollari. Dopo Michael Jackson, Steven Spielberg, Mike Tyson e altri due divi il fumettista era l’uomo più ricco degli Stati Uniti. Le sue strisce venivano lette in gran parte del mondo. Eppure durante quell’intervista il creatore di Charlie Brown arrivò a dire sconsolato: “Questa è proprio una perdita di tempo”. E Gary Groth, l’intervistatore: “In che senso? Non dice sul serio, vero?”. E Schulz: “Andiamo: ho solo disegnato una striscia a fumetti. A chi vuole che interessi quello che penso?”.
Charlie era riuscito a far volare l’aquilone, era riuscito a colpire la palla di baseball come un vero campione e aveva ricevuto l’amore della ragazzina dai capelli rossi. Eppure, non se ne rendeva conto.
Charles M. Schulz, Minneapolis 1922 – Santa Rosa 2000.