La pubblicazione dei testi di Roberto Esposito costituisce sempre un evento. E ciò è da intendere nel senso più autentico che il concetto di evento porta con sé, ossia una traccia che si dà come universale e particolare allo stesso tempo. La relazione dialettica tra questi due poli rimane irrisolta e apre lo spazio a una serie di riflessioni tanto sulla specificità degli argomenti trattati nel testo quanto sull’ontologia dell’attualità di cui esso, in maniera più o meno esplicita, è foriero. Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (Esposito 2020), l’ultimo lavoro del filosofo, le cui coordinate generali erano state già presentate in un breve articolo dal titolo omonimo pubblicato sull’Almanacco di Filosofia e Politica (Esposito 2019), è un’ulteriore conferma di questa caratteristica.
Come sottolineato già da Crosato in un incisivo intervento su L’Espresso (Crosato 2020), dietro l’indagine particolare dei tre paradigmi di ontologia politica (Heidegger, Deleuze e Lefort), a cui fa riferimento il sottotitolo del testo, la posta in gioco delle pagine di Esposito è un più generale ripensamento delle categorie della politica. E tutto ciò declinato a partire dall’urgenza delle provocazioni teoriche che l’attualità squaderna con il suo continuo mutamento. Si tratta, in altre parole, di valorizzare il carattere conflittuale del politico, proponendone così una visione affermativa al di là di ogni logica binaria tra politico e impolitico a cui spesso rimanda il discorso filosofico. Secondo Esposito, proprio tra questi due poli si gioca la partita tra Heidegger e Deleuze, in quanto nomi delle due tendenze opposte (potenza destituente e potere costituente), oltre le quali si situa, invece, la sua proposta affermativa veicolata attraverso la riflessione di Claude Lefort.
Ma procediamo per gradi. Innanzitutto il titolo: esso rivela, tra i tre paradigmi, quale sia quello per cui Esposito parteggia: «Il titolo – Pensiero istituente – si riferisce solo al terzo dei tre paradigmi richiamati nel sottotitolo […] anziché esaminarlo dall’esterno, mi colloco al suo interno, tentandone al contempo una definizione e una radicalizzazione» (Esposito 2020, p. VII). In secondo luogo è decisivo il legame tra ontologia e politica sotteso nel sottotitolo: tra esse non si dà soltanto un rapporto di esteriorità genitiva – l’essere della politica o la politica dell’essere –, ma un intreccio talmente profondo da non prevedere alcuno scarto, anche solo nella forma dell’assenza. Ed è proprio questa caratteristica, ossia la faglia negativa che lega intrinsecamente politica ed essere, a costituire il terzo polo della triade attraverso cui Esposito declina i paradigmi di ontologia politica della contemporaneità: essere, politica e differenza. Le diverse modalità attraverso cui questa triangolazione si dispiega costituiscono il nucleo teorico sempre diverso dei tre paradigmi analizzati da Esposito.
Il primo paradigma fa capo alla filosofia di Heidegger e prende la forma della potenza destituente. Sebbene il lemma destituente non appartenga in maniera specifica al lessico heideggeriano, costituendo piuttosto la cifra ermeneutica attraverso cui Agamben pensa, per alcuni versi, il carattere inoperoso insito nella Gelassenheit dello Heidegger post-svolta, secondo Esposito tutta la produzione di Heidegger successiva agli anni trenta può essere interpretata proprio in virtù dell’ombra riflessa dell’impolitico e della destituzione che ogni politica porta con sé. Se fino agli anni trenta, e in particolare fino al discorso del Rettorato del 1933, Heidegger pensa la politica secondo la categoria dell’opera, in virtù di quella che Esposito definisce una «politicizzazione parossistica del pensiero» (ivi, p. 13), subito dopo la fallimentare esperienza politica legata all’adesione al nazismo egli abbandona ogni declinazione attiva della politica, in quanto espressione di quella fattibilità dell’ente definita attraverso la risemantizzazione del concetto di Machenschaft.
Nel discorso di Heidegger il politico lascia sempre più spazio all’impolitico. Quest’ultimo tuttavia non è pensato come una declinazione apolitica o antipolitica del reale; un discorso del genere contrasterebbe l’idea di fondo del pensiero heideggeriano secondo cui ogni opposizione rientra nella logica di ciò a cui vuole opporsi ma con segno negativo. Così come la lèthe, il velamento, è il fondo insondato, irrappresentabile di ogni verità (aletheia), allo stesso modo l’impolitico, nella forma pensata da Heidegger, rappresenta il lato oscuro del politico. Al cuore della polis si staglia, come “cattiva coscienza” che ne rivela incessantemente l’insufficienza intrinseca, quell’irrappresentabile, quell’indicibile che è l’impolitico.
Abbandonato ogni progetto legato all’idea d’opera, tanto di carattere politico come avveniva nel discorso del Rettorato del 1933 quanto di matrice poietica come, invece, era pensato nel testo su L’origine dell’opera d’arte del 1936, l’inoperosità, declinata come un dis-fare che si oppone al fare (machen) della Machenschaft, è il carattere più proprio del progetto impolitico heideggeriano che trova nell’idea di Gelassenheit – concetto per alcuni versi contiguo all’interpretazione heideggeriana dell’os me paolino – la sua forma di espressione maggiore.
A differenza di ciò che avviene nella proposta filosofica di Simone Weil, in cui l’azione viene disattivata all’interno dell’azione stessa, secondo Esposito la posizione di Heidegger e dei filosofi novecenteschi che a lui si ispirano, conduce a una sorta di messa in mora dell’agire. La dialettica tra politico e impolitico, che aveva costituito il cuore pulsante dell’esperienza greca della polis, si sbilancia a favore dell’impoliticità che, inglobando e fagocitando il politico stesso, finisce per presentarsi come un’etica dell’inazione: «In questo modo, stretto nella tenaglia del negativo […], il politico, come è pensato da Heidegger, implode senza più lasciare tracce» (ivi, p. 70). Se il paradigma destituente porta con sé il rischio di un’implosione della politica e di uno sbilanciamento totale verso il carattere impolitico dell’essere, sull’altro versante anche il paradigma che fa capo a Deleuze, definito da Esposito potere costituente, rischia di risolversi, sebbene in virtù di ragioni diametralmente opposte, in un’evaporazione della politica.
Analizzando in maniera approfondita le pieghe del pensiero deleuziano e le influenze che Spinoza, Nietzsche e Bergson hanno avuto su di esso, Esposito mette in evidenza come esso finisca per espungere in maniera totale lo spazio del negativo dalla propria ontologia. Se ancora fino a Logica del senso permane uno spazio residuo per il negativo, a partire dall’Anti-Edipo qualsiasi spazio ontologico della differenza viene annullato, non per difetto, bensì per eccesso. Non esiste alcuna differenza tra essere ed ente, nessuna verticalità tra sopra e sotto; è la differenza stessa a coincidere con l’essere. L’essere è differenza, continuo spazio differenziale affermativo che si nutre del proprio stesso essere atto creativo – potere costituente. In questa ipertrofia creativa orizzontale, in cui essere e differenza coincidono nei flussi e nei concatenamenti continui, che spazio c’è, si chiede Esposito, per la politica? È la domanda che, d’altro canto, inquieta dall’interno l’opera di Deleuze (e Guattari) anche in relazione agli eventi storici e politici – il ‘68 su tutti – che lo vedono coinvolto in prima persona.
È l’epoca in cui ci troviamo, per usare l’espressione di Esposito in relazione all’opera di Deleuze, di fronte a un «eccesso di politica» (ivi, p. XV). Lo scarto, ancora presente in Heidegger, tra essere e politica perde, in Deleuze, ogni senso. Anzi è la stessa parola “essere” a portare con sé la massima carica politica. Ogni ontologia è di per sé politica. Tuttavia proprio questo eccesso, pensato attraverso i processi di accelerazione e intensificazione, costituisce per Esposito il limite della proposta filosofica di Deleuze. Detto con una formula: se tutto è politica, niente è veramente politico. Dissolvendosi le idee di contrasto e di conflitto che sono insite alla politica, essa «perde di specificità, risolvendosi in puro divenire» (ivi, p. 78). Sebbene per motivi diametralmente opposti i due paradigmi, potenza destituente e potere costituente, conducono nell’interpretazione di Esposito al medesimo risultato: la perdita di specificità della politica.
L’ultimo tratto del percorso di Esposito prova a superare le aporie delle proposte di Heidegger e di Deleuze grazie all’indagine del paradigma del pensiero istituente, che, presentato attraverso l’interpretazione della filosofia di Claude Lefort, costituisce, per così dire, la pars costruens del libro. Chiudendo i conti definitivamente con il lessico teologico-politico, il pensiero istituente, sebbene collocato come gli alti due paradigmi in un orizzonte post-fondazionalista, prova a compiere rispetto a essi un passo ulteriore. E ciò avviene alla luce di una diversa articolazione della triangolazione tra essere, politica e differenza, che costituisce lo sfondo necessario, secondo Esposito, di ogni ontologia politica.
Se, da un lato, in Heidegger avviene una divaricazione assoluta tra politico e impolitico, spostando l’ago della bilancia verso il secondo termine e se, dall’altro lato, in Deleuze essere e politica coincidono appiattendosi l’uno sull’altro, il merito della proposta di Lefort è quello di mantenere aperta la logica conflittuale della differenza. Proprio il carattere conflittuale insito al pensiero istituente fa emergere il motivo per cui esso possa anche essere definito neo-machiavelliano. Conflitto e realismo storico costituiscono, infatti, i capisaldi attraverso cui si dipana la comprensione di tale forma politica. Il suo tempo, dunque, non è né quello kairologico dell’evento heideggeriano né l’infinito ripetersi immanente della differenza deleuziana, bensì un tempo sempre a-venire ma, al contempo, ben radicato nella storicità del proprio darsi. Come rappresentato in maniera paradigmatica nell’istituto romano del Tribunato della plebe, dice Esposito interpretando Lefort lettore del Machiavelli dei Discorsi, il paradigma istituente non distrugge le istituzioni precedenti ma, collocandosi in esse, le rinnova in senso affermativo.
In ultima battuta è importante far notare come Esposito, nell’avanzare la propria proposta ermeneutica di un pensiero istituente, non utilizzi né il concetto di potenza, così come era avvenuto caratterizzando la filosofia heideggeriana, in quanto tale nozione di matrice aristotelica sottolineerebbe una preminenza marcata degli aspetti ontologici del paradigma di cui si fa portavoce, né tantomeno il concetto di potere, in quanto esso nella triangolazione tra essere, politica e differenza sarebbe troppo sbilanciato dal lato della politica – come d’altro canto avviene in Deleuze. Egli utilizza, invece, la nozione di pensiero, in quanto essa, pensata grecamente come lègein, si presenta come la possibilità di raccogliere e articolare in maniera problematica, ma al contempo fruttuosa di fronte alle provocazioni dell’oggi, essere, politica e differenza.
Riferimenti bibliografici
C. Crosato, Ripensare la politica. E riscoprire il conflitto. La via di Esposito per uscire dalla crisi, “L’Espresso”, n° 7, 9 febbraio 2020.
R. Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica in M. Di Pierro, F. Marchesi, Almanacco di Filosofia e Politica I. Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione, Quodlibet, Macerata 2019.
Id., Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020.
Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020.