Da Ejzenštejn a Godard, da Donen a Kieślowski, passando per Bergman, Scorsese, Jarman, Demy, Debord, ecc., l’ultimo volume di Venzi raccoglie e rielabora dieci studi di carattere teorico-analitico incentrati sulla dimensione compositiva dell’elemento del colore nel cinema. Oltre ad essere tra le più significative e affascinanti questioni che si pongono alla teoria del cinema e all’analisi del film, la composizione cinematografica del colore, che era stata già affrontata da Venzi nel volume Il colore e la composizione filmica (2006), si pone anche come una delle vie privilegiate mediante le quali è possibile perlustrare in profondità l’immensa matericità cinematografica.

Prima di perlustrare le complesse e frastagliate performatività che l’elaborazione formale del colore può assumere nel cinema, Tinte esposte sottolinea innanzitutto la distinzione cardine da cui è obbligatorio partire se si vuol capire davvero cosa significhi analizzare il colore dal punto di vista della composizione cinematografica. Perché il colore componga, o faccia qualcosa, è necessario pensarlo autonomamente «dalla cosa che lo porta a manifestazione». Esso deve farsi, innanzitutto, inoggettuale, sovraoggettuale, deve trascendere ciò che lo fenomenizza, deve darsi a vedere come «colore in quanto tale», così che lo spettatore abbia a che fare non tanto con delle cose blu, ma soprattutto con del blu. Solo così si avrà una vera e propria idea del colore.

Riprendendo Ejzenštejn, tra i principali teorici della composizione filmica del dato cromatico, Venzi spiega come esistano, innanzitutto, due modalità perché il colore si faccia sovraoggettuale nell’immagine cinematografica: insorgenza e ricorrenza. Con la prima la «tinta buca, investe, travolge l’immagine, si vede più e prima della cosa cui si accompagna, esibisce un’identità attrazionale e derealizzante», mentre con la seconda «la tinta si ripete nel testo, si fa vedere e si fa pensare attraverso cose ugualmente colorate», esibendo un’identità dinamica e serializzante. Attraverso continui esempi, che da Funny Face (1957; Cenerentola a Parigi) di Donen vanno fino a Broken Flowers (2005) di Jarmusch, Venzi non si stanca mai di sottolineare come ogni film che si proponga di comporre con il dato cromatico debba quasi sempre attuare queste due diversificate modalità compositive.

Però, ciò che contraddistingue il nucleo centrale di Tinte esposte non sono tanto le due nozioni di cui abbiamo brevemente parlato, ma il fatto che il testo filmico può esibire il colore in quanto tale tramite varie tipologie formali (corpo-colore, volto-colore, dissolvenze cromatiche a chiudere, colore-schermo, ecc..) e soprattutto può indirizzarne la stratificata performatività verso le più diversificate funzioni, verso i più diversi importi di senso, sia narrativi che non, verso precise codificazioni intratestuali o extratestuali, oppure, trascendendo qualsiasi correlazione tra dato e senso, andando verso la rappresentazione dell’«aria», dell’«indistinto procedere dell’esistente», oppure ancora, passando attraverso il superamento della rappresentazione, dirigendosi verso quella che Deleuze potrebbe definire rappresentazione orgiaca.

Per quanto riguarda la rappresentazione di un punctum caeucum nel visibile stesso attraverso il dato cromatico, Venzi parla di due grandi film tra loro molto diversi, Hurlements en faveur de Sade (1952; Urla in favore di Sade) di Debord e Blue (1993) di Jarman. Interamente costituito da uno schermo bianco emergente da larghe porzioni di buio e di silenzio, Hurlements en faveur de Sade configura una «cancellazione acromatica» di qualsiasi portato visuale, di qualsiasi interdipendenza tra vedente e visibile, perché nel film di Debord lo schermo bianco, o nero, «non è che puro e semplice azzeramento, integrale rifiuto dell’immagine, supporto e manifesto di una presa di posizione estetica, politica e morale», che si pone, innanzitutto, contro qualsiasi methexis, contro qualsiasi modello, in modo da annullare qualsiasi distanza tra esso e la sua copia.

A differenza del film di Debord, Blue di Jarman si colloca, invece, sul versante della «cancellazione cromatica» dell’immagine, volta non tanto verso la negazione del visibile, ma in direzione di «una sua poderosa, ostinata, occlusione». Costituito da un’ora e venti di impassibile campitura blu attraversata da quattro voice over, in Blue l’immagine è qualcosa che il film ha trasformato in una tinta: «essa è diventata nient’altro che colore, meglio, un colore attraversato da suoni, immobile, definitivo, che pietrifica la visione e la satura della propria permanenza». Divenuto quasi cieco a causa dell’Aids, Jarman, scrive Venzi, «costringe alla cecità anche il suo spettatore», colorando la sua cecità e rendendola propriamente visibile, così da rappresentare una tra le più affascinanti correlazioni cinematografiche tra vedente e visibile.

Suddiviso in dieci capitoli, Tinte esposte di Venzi ha sicuramente in Tinte brucianti. Colore e cancellazione dell’immagine, di cui abbiamo presentato solamente alcuni tratti, una delle sue sezioni più complesse. Prima, però, di giungere a questo settimo capitolo, Tinte esposte presenta tanti altri grandi esempi della performatività del colore e sicuramente non meno difficili da comprendere. Muovendosi in direzione di una modellizzazione del colore alla forma generica che ne supporta la composizione, Donen in Cenerentola a Parigi rappresenta una «geometrica messa in forma del variopinto, che si compone nel quadro di una simultanea valorizzazione dell’incolore».

Prima di esporre il variopinto mediante la rappresentazione di sette porte ognuna di un colore diverso, Donen si concentra nell’incipit del film sull’insorgenza e sulla ricorrenza dell’incolore, cioè del bianco e del nero, così da intensificare l’apparizione del dato cromatico durante uno dei numeri musicali più inventivi del film, Think Pink, nel corso del quale la piccola serie variopinta «precipiterà nel turbinio di un solo colore, il rosa». Se Donen si serve del colore rosa per una funzione innanzitutto identificativa più che drammaturgica, in Broken Flowers di Jarmusch, che Venzi presenta nel suo ultimo capitolo, è soprattutto la seconda a determinare gli sviluppi del dato cromatico, senza tuttavia essere subordinata a nessuna Color Consciousness. Racconto della vicenda di un dongiovanni in declino, in Broken Flowers il colore rosa «punteggia, impuntura e propriamente imbastisce il tessuto visivo, immaginativo e configurativo del film».

Ejzenštejniamente alla continua ricerca di oggetti, il colore rosa nel film di Jarmusch è il vero e proprio motore delle dinamiche drammaturgiche e narrative portanti del film: per cercare la presunta madre di suo figlio, per capire se suo figlio esista davvero e lo stia cercando, Don è chiamato innanzitutto a cercare un colore. Sebbene Jarmusch riprenda l’impianto teorico-formale relativo al dato cromatico di Ejzenštejn, Broken Flowers si muove in direzione opposta rispetto a Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor (1946; La congiura dei boiardi) del regista di Riga, film emblematico ed imprescindibile sia da un punto di vista storico che teorico per quanto concerne la composizione filmica con il dato cromatico. Dal punto di vista narrativo e drammaturgico, Jarmusch orienta le sue ricorrenze di colore rosa verso, come dichiara Venzi, «il lato artificioso, autoreferenziale e dichiaratamente ludico», cioè, muovendosi in direzione postmoderna, verso la pura assenza di qualsiasi semantizzazione del colore.

In Ejzenštejn invece, cui Venzi fa riferimento anche nel capitolo Volto, colore, emozione: Pierrot le fou, la performatività del dato cromatico volge a precise codificazioni, verso una precisa funzione espressivo-simbolica. Anzi, ancor di più. Ne La congiura dei boiardi il dato cromatico è l’elemento espressivo che ottempera sia allo smembramento/riunificazione del dato ad un nuovo livello qualitativo, cioè all’uscita fuori da sé dell’opera (com’è noto il film è in bianco e nero, con l’eccezione della sua ampia conclusione), che all’organicità di essa, contraddistinta da un’evoluzione per salti qualitativi. La funzione espressivo-simbolica del dato cromatico di cui parla Venzi nel quinto capitolo, tra le più affascinanti della variegata performatività del colore, non riguarda soltanto la rappresentazione di un preciso concetto, o di una precisa idea, ma può riguardare anche la rappresentazione di un preciso affetto, di una certa sensazione, di uno stato d’animo, purché il film esponga un’interconnessione «tra unità di contenuto e di senso» e purché essi siano determinabili o definibili.

Nel caso in cui il film opti per «dar forma all’indeterminato, all’oscuro sentire» attraverso il colore, Venzi parla di una performatività soprattutto attrazionale volta ad una figurativizzazione astratta. Tra i grandi capolavori della storia del cinema che muovono in quest’ultima direzione Venzi cita, innanzitutto, Le mépris (1963; Il disprezzo) e Pierrot le fou (1965; Il bandito delle 11), entrambi di Godard. «Restando saggiamente all’esterno» ed utilizzando la sua personale palette, Godard, ne Il disprezzo, attraverso la correlazione corpo-colore dà forma al variegato patire di Camille (Brigitte Bardot) nei confronti di suo marito Paul (Michel Piccoli), sceneggiatore che per denaro si vende a Prokosch (Jack Palance), produttore cinematografico americano. Sebbene, come scrive Venzi, in questo film il lavoro compositivo del colore sia volto a rappresentare anche una sensazione ben definita, se ne può parlare anche in termini di pura attrazionalità perché nella celebre sequenza monstre dell’appartamento «i colori impazziscono su e attorno al corpo di Camille, così come il suo interno più oscuro e profondo», in maniera tale da coincidere con un’«astratta figurativizzazione emozionale» per niente determinata o definita.

Se per certi versi Il disprezzo si divide tra una performatività cromatica espressivo-simbolica e puramente attrazionale, Il bandito delle 11 si pone, invece, come un film radicale per una performatività cromatica puramente attrazionale in cui, invece che il corpo, è soprattutto il volto a costituirne il nesso visuale principale. Ne Il bandito delle 11, più che in ogni altro film godardiano del periodo, «è nell’unità emozionale garantita dal colore che i materiali più diversi di cui il film si nutre (cinema, letteratura, pittura, fumetto, ecc..), e che in esso si incrociano in modo vertiginoso, si compongono organicamente». Passando, dunque, «per la vita della gente e per le forme definite delle cose», Godard dà forma a ciò che si trova tra il dato e il senso, puramente astratto, indefinito ed organico.

Per quanto riguarda il colore nel cinema italiano, Venzi rimanda alla sua lunga voce Colore compresa nel primo dei tre volumi del Lessico del cinema italiano (2014-2016) curato da Roberto De Gaetano, ed in Tinte esposte si concentra soprattutto sulla performatività del colore nel cinema di Argento, ma fa un breve cenno, tra gli altri, anche a quello di Bene. Relativamente alla sua composizione cromatica, il cinema beniano, si colloca, come si osserva nel Lessico, come uno dei casi più alti del cinema italiano per quanto riguarda una performatività cromatica puramente attrazionale, astratta e trasfigurante. Nella sua azione iconoclasta, il cinema beniano si dirige anch’esso verso una sensazionalità indefinita, indeterminata, non organica, di eccezionale potenza visuale.

Riferimenti bibliografici
L. Venzi, Tinte esposte. Studi sul colore nel cinema, Pellegrini Editore, Cosenza 2018.
Id., Il colore e la composizione filmica, Edizioni ETS, Pisa 2006.
G. Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris 1968; tr. it. Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
R. Ronchi, Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2001.

Share