Il cinema è io volo
Il dottor Stranamore (Kubrick, 1964).

Da Parigi è possibile vedere il XXI secolo, a patto di essere Paul Virilio. Cioè interessati da un lato all’architettura e all’urbanistica come pratiche del territorio reale/immaginato/immaginario (da L’archeologia del bunker a Città panico), dall’altro alle spinte all’accelerazione fornite da tutti i media para-bellici della modernità e dell’ipermodernità (compresa la “bomba informatica”). Certo, il suo tentativo di fondare una “dromologia” come scienza (a partire da Velocità e politica, che nel 1981 abbiamo letto nella traduzione Multhipla) non ha avuto maggior successo accademico della “mediologia” di Régis Debray e altre francesità “mitologiche”; ma le sue intuizioni al fulmicotone hanno costantemente illuminato l’enorme spazio trasformativo della contemporaneità (compreso il fenomeno neotelevisivo Berlusconi, trattato nel saggio Lo schermo e l’oblio uscito nelle edizioni Anabasi giusto l’anno della “discesa in campo”) tracciando linee di tendenza che ancora oggi dovremmo prendere in considerazione.

Per Virilio ogni nuova tecnologia annuncia necessariamente un nuovo tipo di incidente, per quanto l’evento possa essere spostato nel futuro: all’arrivo del treno alla stazione seguirà la grande rapina al treno, l’invenzione dell’aereo comporterà il disastro aereo (e l’11 settembre), l’information technology applicata alla finanza farà crollare Wall Street, i social network genereranno gli haters. E il cinema, in questa visione, di quali colpe si è macchiato o si macchierà?

La risposta del dromologo è nella ricostruzione storica dei legami fra la logistica della percezione automatica e a distanza (i cui prodromi sono appunto la fotografia e la cinematografia) e – in una visione dall’alto che risente di Jünger e Carl Schmitt – il fondamentale passaggio dalle grandi manovre sul terreno allo scontro aereo, dalla guerra di posizione alla guerra/lampo (istantanea come una fotografia, accecante come un flash): a partire dal 1914/18 «il cinematografo si associa ai conflitti come il mirino ai fucili e la cinemitragliatrice alla guerra aerea» (Virilio 1996, p. 102); nell’arco del Novecento, anzi in un travelling di ottant’anni, «La guerra è alla fine diventata la terza dimensione del cinema» (p. 115).

Già la storia della fotografia potrebbe essere riscritta evidenziando questi rapporti che in genere vengono letti come strane curiosità: si pensi alla passione per il volo di Nadar, finanziatore degli studi sul “più pesante dell’aria”, il quale rischia la vita sul pallone aerostatico per mappare fotograficamente Parigi dall’alto (e, specularmente, usa la luce artificiale per illuminare il mondo sotterraneo delle catacombe); si pensi a Edward Steichen, che nella Prima guerra mondiale comanda la divisione fotografica delle forze armate statunitensi operanti in Europa, nella Seconda è direttore dell’istituto fotografico navale, nel 1945 vince l’Oscar col documentario La grande combattente e dieci anni dopo allestisce la celebre mostra pacifista e globalista “The Family of Man”. Ma che l’occhio che inquadra sia un occhio che uccide si era già capito con la cronofotografia di Marey, il cardiologo che nel 1882 anticipa il cinema inventando il fucile fotografico, che assieme al revolver fotografico di Janssen giustifica il termine shooting per descrivere l’atto di scattare o di riprendere.

Ciò che il cinema insegna alla guerra (e al terrorismo) è l’importanza della visibilità, l’elaborazione dello “scenario” (la sceneggiatura), la simulazione e la dissimulazione, il calcolo dell’effetto sullo spettatore. Ciò che la guerra moderna (cioè la guerra aerea) insegna al cinema è l’autonomia dell’occhio, la necessità di dominare il set anche a distanza (si pensi a Kubrick e Coppola) e ovviamente la liberazione definitiva dello sguardo dal corpo dell’operatore: l’invenzione del drone risale a un’intuizione dell’attore e industriale Reginald Denny, nell’epoca in cui recitava in La pattuglia sperduta (1934) di John Ford.

C’è un parallelismo tutto da affrontare e approfondire tra l’uso della proiezione e dell’illuminazione nell’industria cinematografica e nell’esperienza bellica (non è un caso che il marchio animato della 20th Century Fox metta in gioco fasci di luci antiaerei), tra le innovative carrellate di Cabiria e il volo di D’Annunzio su Vienna, la rivoluzione sovietica e il concetto di “conflitto” nel montaggio di Ejzenštejn. Nella guerra moderna, tutto ciò che i soldati non possono vedere può essere visto dall’alto, può essere registrato dalla macchina da presa. E se il cinema modifica la storia della guerra, la guerra modifica la storia del cinema: Rancière notava l’incongruità dell’ipotesi di Deleuze secondo cui il passaggio dall’immagine-movimento all’immagine-tempo è operata dalla seconda guerra mondiale come causa della crisi neorealista (azione bloccata dallo shock e sostituita dall’erranza e dalla veggenza). Se poi ci si chiede come mai Paul Virilio (classe 1932) sia stato così flashato da questo tema della guerra-spettacolo, bisogna arrivare a quella paginetta autobiografica in cui il dromologo torna ad un giorno imprecisato della Seconda guerra mondiale:

Essendomi trovato ancora bambino in mezzo alla luminaria dei bombardamenti strategici, poi in mezzo a una serie di combattimenti terrestri in compagnia di un vecchio ufficiale di collegamento di artiglieria sopravvissuto al lungo conflitto del 1914, ho potuto constatare con quanta facilità una mente esperta fosse in grado […] di anticipare ciò che le parti presenti avevano intenzione di fare. Insomma, il mio vecchio amico mi descriveva esultante quella sceneggiatura della battaglia che il novizio che io ero non recepiva che come effetto speciale della battaglia (Virilio 1996, p. 71).

 

L’annotazione dello stratega Churchill, secondo cui nei conflitti antichi avevano importanza gli episodi mentre nella guerra moderna la tendenza ha la meglio sugli episodi, si trasforma in un programma intellettuale: lo studioso inanella fatti (troppo spesso senza citare le fonti) solo per presagire linee di tendenza. Da Parigi è più facile fare tendenza, ma spetta poi a tutti i docenti alla periferia dell’impero provare a consegnare questo metodo agli studenti che ancora frequentano l’università del disastro.

Riferimenti bibliografici
J. Ermitage (a cura di), Paul Virilio from modernism to hyper modernism and beyond, Sage, London 2000.
S. Cacciari & U. Fadini, Lessico Virilio: L’accelerzione della conoscenza, Felici, Pisa 2012.
S. Redheadf, Paul Virilio theorist for an accelerated culture, Edinburgh University Press, Edinburgh 2004.
P. Virilio, Guerra e cinema. Logistica della percezione, Lindau, Torino 1996.

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