Secondo il vocabolario Treccani, in biologia si definisce parassita “ogni animale o vegetale il cui metabolismo dipende, per tutto o parte del ciclo vitale, da un altro organismo vivente, detto ospite, con il quale è associato più o meno intimamente, e sul quale ha effetti dannosi”, definizione che getta una pesante ipoteca negativa sul termine. Il volume collettaneo Parassiti. Ontologia, estetica, etica, politica (Kaiak Edizioni, 2024) intende sottolineare «l’ambivalenza strutturale delle relazioni parassitarie […] come la risorsa da cui partire […] per elaborare strategie di sopravvivenza in questo mondo “danneggiato” e per tentare di intrecciare nuove e più felici, per quanto fragili, relazioni tra umani e non umani» (2024, p. 7). Di qui, si snodano sette contributi che intendono illuminare le differenti potenzialità insite nel concetto di parassita presente nel pensiero di Michel Serres, in particolare a partire dal testo Le Parasite (1980), tradotto in italiano da Mimesis nel 2022.
Il testo si apre con l’intervento di Felice Cimatti, il quale sviluppa una “ontologia parassitaria” che insiste sull’antecedenza assoluta della relazione rispetto ai suoi termini: «Secondo l’ontologia parassitaria […] la relazione è propriamente un originario campo di tensione che talvolta ‘precipita’ nelle entità coinvolte nella relazione. Le entità sono prodotte dalla relazione, e non viceversa» (ivi, p. 11); se tale relazionalità fosse però egualitaria, l’interazione fra termini istituirebbe soltanto stasi, chiudendo la possibilità di produrre novità. Il parassita però «fa dell’ospite […] un “quasi-abitacolo”, […] un luogo dove quasi-vivere, a spese dell’ospite […]. Se fosse un abitacolo, ossia una sistemazione definitiva, si arriverebbe velocemente ad una situazione di equilibrio, e l’equilibrio impedisce la comparsa del nuovo» (ivi, p. 17). Perciò, l’ontologia parassitaria impedisce di stabilire chi parassita e chi è parassitato, scompaginando la sicurezza delle posizioni assolute dell’ontologia classica e descrivendo in maniera inedita l’emergere della novità.
Elena Gagliasso evidenzia invece l’originalità del parassita in Serres in quanto «dispositivo concettuale [che] intreccia racconto e filosofia, ibridando le scienze naturali con quelle umane» (ivi, p. 32), ibridazione che ci dovrebbe portare a rivalutare la reale portata del concetto di individuo poiché esso non risulta più in grado, dopo la destabilizzazione parassitaria, di cogliere la co-appartenenza strutturale tra organismi in relazione e le loro dinamiche: «Si tratta di tante e diverse dinamiche che si potrebbero raccogliere e tradurre antropomorficamente con mutuo aiuto» (ivi, p. 41). L’intervento si conclude sull’importanza di mobilitare la nozione di condividuo, capace di restituire l’intricata tessitura biologica e culturale del bìos.
Particolarmente consonanti risultano i contributi di Gaspare Polizzi e Fiorenza Toccafondi, i quali mostrano rispettivamente quattro figure specifiche del parassita e l’efficacia di metafore e similitudini in Serres. Partendo dalle favole di La Fontaine utilizzate dallo stesso Michel Serres per descrivere le relazioni parassitarie, Polizzi mobilita Il topo di città e il Topo di campagna, I compagni di Ulisse, Il Leone malato e la Volpe e il poemetto di La Fontaine Philémon et Baucis, poiché «il potere globale e generale delle favole sta nella loro capacità di innescare una catena di metamorfosi, una serie parassitaria» (ivi, p. 66), che ancora una volta rimarca l’incapacità di decidere circa le posizioni precostituite dei termini entro una relazione parassitaria – in questo caso dei personaggi rispetto alla trama relazionale del racconto.
Parimenti, Toccafondi esamina il funzionamento delle metafore nella filosofia di Michel Serres e nell’etologia di Konrad Lorenz, soffermandosi sulla “sacculinizzazione” di cui parla l’etologo, termine che riporta al parassita Sacculina carcini di cui egli si serve per descrivere il concetto di “evoluzione demolitrice”. Secondo l’autrice, se l’evoluzione degli organismi «si basa sull’interazione di questi col proprio ambiente […], nel momento in cui gli organismi perdono informazioni sul mondo esterno a instaurarsi è un processo che va […] in una direzione contraria a quella che è propria dell’evoluzione comunemente intesa» (ivi, p. 127). La metafora della “sacculinizzazione” dipinge nitidamente il nostro comportamento come specie umana, poiché sottomettiamo costantemente il nostro ospite – il mondo naturale – ai nostri bisogni. «Abbiamo stremato il nostro ospite come fa il parassita» (ivi, p. 132), afferma Toccafondi per mostrare la potenza della metafora parassitaria nel descrivere la crisi ambientale, e allo stesso tempo essa ci permette di «prendere sempre più contezza del fatto che ciò che normalmente non mettiamo a fuoco va parimenti portato in primo piano» (ibidem).
Il quarto scritto vede Vincenzo Cuomo utilizzare il dispositivo delle relazioni parassitarie per «teorizzare sull’arte a prescindere dalla partizione tra umano e non umano» (ivi, p. 86), approccio che contribuirebbe a produrre un paradigma estetico non-antropocentrico, di matrice ecologista e al di là degli steccati culturali. L’autore si concentra su due questioni cruciali per una filosofia dell’arte “non simbolica”, ovvero quella della creazione artistica e quella della mimesi. Ripartendo dall’etimologia serriana di parassita inteso come “ciò che mangia accanto” (pará sitos) e che si nutre dello scarto degli altri, esso farebbe soltanto uso del valore, ne può soltanto abusare – abuso come uso eccessivo e uso dell’eccedente. L’abuso parassitario genera una indecidibilità circa la separazione tra creazione artistica in senso stretto e mera copia, il che ci spinge a spostare una filosofia parassitologica dell’arte dal terreno della creatio ex nihilo a quello della parassitaria creatio ex aliquo: in tal senso, la creazione è sempre invenzione come creatio ex aliquo, poiché «l’imitazione di un’invenzione non è mai la soluzione di un problema, di un bisogno, di un desiderio, ma contiene un surplus creativo impersonale che consiste proprio in un processo che […] possiamo definire parassitario» (ivi, p. 100). Inoltre, il parassita può sopravvivere nell’ambiente in cui si trova soltanto variando le condizioni con cui si mescola, meccanismo che permette alla filosofia dell’arte di ripensare la teoria dei processi mimetici poiché «sarebbe in grado di intendere la mimesi nella sua costitutiva ambivalenza, senza dover ricadere nella contrapposizione tra “mimesi buona” e “mimesi cattiva” di origine platonica, sostanzialmente ripetuta […], nella tradizione filosofico-artistica occidentale» (ivi, p. 109).
Infine, sulla scia della critica di Serres all’idealismo di ogni tipo ed epoca in quanto “predatorio”, Cuomo sottolinea la differenza tra predatore e parassita poiché «il “predatore” è un parassita […] che ritiene di sottoporre l’ambiente di vita al suo dominio […]. Il parassita, invece […], per abusare dell’ospite, anche se può condurlo alla distruzione, sa che deve necessariamente relazionarsi con esso come a un altro (alius)» (ivi, p. 118). Tale dimensione liminale del parassita permette a una filosofia parassitaria dell’arte di fondare le proprie categorie proprio sulle soglie ambivalenti che il processo parassitante istituisce, arrivando a mettere in questione la simbolicità della produzione artistica umana.
Nel penultimo saggio, Ubaldo Fadini sottolinea il legame teorico tra il biologo Jakob Johann von Uexküll e il pensiero del “divenire ibrido” di Gilles Deleuze. Alla luce della dicotomia Umwelt/Welt dell’etologo tedesco, l’interesse deleuziano per la relazione umano/animale lo porta a focalizzarsi sulla dimensione del “territorio” poiché esso «ha sempre a che fare con le proprietà dell’animale e Deleuze osserva […] come l’uscire dal territorio significhi avventurarsi, là fuori, laddove non si riconoscono i propri simili» (ivi, p. 144), osserva Fadini. Tutti i movimenti generati dai processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione di trasposizione di forze da un luogo ad un altro accomunano, per Deleuze, ambiti differenti come l’arte, l’animale, il filosofo e, in ultimo, la scrittura: ciò che quest’ultima farebbe effettivamente è «spingere il linguaggio e la sintassi, in modi molteplici, a quello che è il loro limite, che li separa da qualcos’altro, da altri territori» (ivi, p. 145), il che ci permette tematizzare l’inumanità dell’umano e il rapporto animale con l’animalità. Fadini mette dunque in relazione le ricerche di von Uexküll con il pensiero di Deleuze sotto il profilo della “potenza di metamorfosi”, della “capacità di divenire”: animali umani e non si rapportano tramite un “ambiente/mondo” (Umwelt/Welt) rispetto al quale «la scrittura (e la filosofia, l’arte…) danno corpo al tentativo di percepire, in modi peculiari, qualcosa che non è facile “vedere” […]. Ciò che conta è l’effetto di trascinamento dentro delle potenze che ci eccedono e che vale appunto la pena provare (perché ne può derivare gioia)» (ivi, p. 152); solo così per Fadini si può intensificare la capacità di sentire la vita come potenza della relazionalità strutturale del vivente.
In chiusura al testo troviamo il contributo di Jean-Claude Lévêque, il quale si concentra sull’impatto che hanno avuto Leibniz e Lucrezio sull’itinerario serriano nella storia delle scienze. Della concezione leibniziana della matematica, Serres impiega il «meccanismo autoregolatore di questo edificio formale e traduce tale capacità di ricomposizione su diversi piani e a situazioni diverse» (ivi, p. 154); per poter coniugare stabilità e divenire, egli introduce il clinamen della fisica antica lucreziana, installando Lucrezio su di un «mondo in movimento, quello dei fluidi e dei gorghi, tende a separarlo da due leggi della necessità: la caduta e l’equilibrio. Cerca la stabilità attraverso le flussioni» (ivi, p. 156). In questo modo, il filosofo francese produce un irrobustimento della concezione della scienza, capace di trattenere al suo interno caos e ordine in un’armonia fluttuante.
Fortemente critico verso l’epistemologia del suo tempo, Serres ritiene che «descrivere il meccanismo che distribuisce il sapere in un’epoca, deve essere l’oggetto stesso della storia delle epoche della scienza» (ivi, p. 165), sguardo che consente di criticare la rigida separazione della scienza in steccati disciplinari di fronte al continuum che la cultura rappresenta; Serres si avvale perciò della potenza della narrazione per riconfigurare tramite il racconto «la storia delle scienze, come “favola” in senso stretto, colloca nelle favole la filosofia della scienza» (ivi, p. 168), facendo in tal modo oscillare l’epistemologia verso una antropologia delle scienze grazie alla potenza dei miti. Conclude Lévêque: «L’eredità di Serres ci obbliga a non accontentarci di dire che le scienze sono costruzioni sociali. Porta a mettere in discussione simmetricamente la costruzione scientifica delle società contemporanee, il ruolo assegnatole come scienza in amministrazione, gestione della popolazione e della migrazione» (ivi, p. 171).
Giunti alla fine del volume, si percepisce il potenziale nascosto nella negatività del parassita, sensazione che ci spinge forse ad aprire ulteriormente il fenomeno del parassitismo, in modo da saggiarne ulteriori linee di forze in esso contenute e non ancora emerse. La dimensione collettiva – forse parassitaria? – del libro lascia in chi legge la percezione di ritrovarsi inserito in una rete ontologica, ecologista, metaforica, estetica, diveniente e sapienziale di relazioni parassitanti, che sembra inneggiare alla seguente prassi politica: “Viventi di tutti gli ambienti, parassitatevi!”.
Parassiti. Ontologia, estetica, etica, politica, a cura di Vincenzo Cuomo, Igor Pelgreffi, Gaspare Polizzi, Kaiak Edizioni, Napoli 2024.