Paleoestetica, l’ultimo libro di Michele Cometa, non è solo un’indagine su uno dei più spinosi enigmi della paleontologia moderna: è il tentativo, si può dire riuscito, di fondare un nuovo campo di ricerca. È secondo questa duplice direttrice che va letto il sottotitolo del libro, Alle origini della cultura visuale: da una parte c’è il tema, diciamo così, della nascita dell’arte primitiva; dall’altra parte c’è la questione dei fondamenti dei nostri modi di vedere e di interpretare il mondo. Siamo alla ricerca di quelli che Michel Foucault avrebbe definito gli “a priori storici” dello sguardo umano. Chiudendo una prima rassegna dei problemi interpretativi che pongono siti come la Grotta Chauvet o quella di Lascaux, Cometa afferma infatti che «qui qualcosa di nuovo è cominciato: un nuovo umanesimo» (2024, p. 39). Pertanto i tentativi di quegli studiosi e quelle studiose, i quali si pongono di fronte alle figure della pittura parietale con l’atteggiamento dello spettatore ingenuo, sono viziati da un errore di fondo, perché pensano di poter ammirare quelle immagini alla stregua di opere d’arte in un museo (ivi, p. 42). Non si tratta di accettare l’incommensurabilità che separa questa arte dall’arte dei musei e delle gallerie. Si tratta tuttavia di comprendere che la posta in gioco è un’altra: cogliere il momento in cui gruppi appartenenti alla specie homo hanno cominciato a manifestare alcuni dei tratti che contraddistinguono ciò che noi chiamiamo umanità.
Non è un caso se, nella mole di studi con cui si confronta, dalle ricerche sur terrain di André Leroi-Gourhan fino alle sperimentazioni del neuroscienziato Vittorio Gallese, dall’iconologia di Aby Warburg alla metaforologia di Hans Blumenberg, Cometa non rinunci a confrontarsi con alcuni classici del pensiero moderno, in particolare tedesco. Non dimentichiamo che l’autore, sebbene lavori da anni a un paradigma originale di cultura visuale, affrontando temi che vanno dal rapporto tra parola e immagine fino all’ecologia dei media, nasce come studioso e raffinato conoscitore della cultura, dell’estetica e della letteratura tedesca dell’epoca classica e romantica. Egli può così citare l’intuizione di Herder, il quale riteneva che la postura eretta, avendo per conseguenza la liberazione delle mani (ivi, p. 45), avesse comportato non solo l’aprirsi di nuove possibilità operative, ma avesse avviato anche un più generale processo di ristrutturazione delle forme del pensiero. Appare allora chiaro che siamo dentro una filosofia della storia e che guardiamo retrospettivamente al passato della nostra specie, cercando di riannodare i fili tra ciò che siamo e ciò che eravamo. Le immagini sono uno degli “archivi” a cui ricorriamo per compiere questa ricucitura. La paleoestetica si ricollega pertanto al senso originario dell’estetica moderna, che il filosofo Baumgarten aveva fondato a metà del XVIII secolo come scientia cognitionis sensitivae (ivi, p. 46). L’estetica, lungi dall’essere meramente filosofia dell’arte e del bello, è una riflessione su come la percezione e la sensibilità danno forma, oltre che materia, all’esperienza e alla nostra conoscenza del mondo. Ma non si tratta, ed è questa l’intuizione di Cometa, di strutture innate: sono processi, trasmissibili attraverso l’evoluzione bio-culturale. Sono forme di embodiment: un termine che dobbiamo ormai intendere sia nel senso della “simulazione incarnata” delle neuroscienze, sia nel senso di una incorporazione di nuove architetture cognitive attraverso i contenuti di esperienze ereditate o fatte in prima persona.
Appare chiaro allora qual è stata la funzione delle immagini a partire dall’arte preistorica: offrire uno spazio di gioco o meglio di pensiero — un Denkraum, direbbe Warburg (ivi, p. 89) — atto ad anticipare, fissare, formalizzare, rielaborare e trasmettere i processi cognitivi che vedono coinvolti il corpo e la mente, i sensi e l’intelligenza del reale. Lo aveva intuito Blumenberg in Teoria dell’inconcettualità, dove ipotizza kantianamente che le pitture rupestri siano una sorta di esteriorizzazione dello schematismo dell’immaginazione. Il filosofo Vilém Flusser è uno dei primi a tentare di costruire una teoria dell’immagine a partire da osservazioni analoghe; e rilievi importanti ci vengono senza dubbio dalla teoria dell’atto iconico di Horst Bredekamp e dal metodo “decostruttivo” di W.J.T. Mitchell. Cometa, però, non si limita ad aggiungere un tassello al mosaico o magari a definire con chiarezza i contorni dell’oggetto teorico in questione. La paleoestetica, come ho suggerito all’inizio, è un campo di ricerca che convoca diverse discipline e che, in un modo o nell’altro, obbliga ciascuna di esse a ripensare il proprio orizzonte teorico. Non solo la filosofia, la paleontologia e le neuroscienze, ma anche l’antropologia, la psicoanalisi e la teoria del cinema e dei media sono chiamate in causa da questo approccio interdisciplinare. D’altronde, quando l’autore enumera alcune delle funzioni attribuibili ai manufatti dell’arte primitiva, elenca di fatto una serie di agencies che, come i tratti somatici all’interno di una famiglia, si presentano a volte, ma non per forza tutti insieme, associati alle immagini. A seconda delle contingenze e delle circostanze storiche le immagini possono essere: uno «spazio di proiezione dell’immaginario soggettivo»; il darsi di «forme di embodiment e propriocezione»; uno «spazio per gli ornamenti e le decorazioni»; il costituirsi di «tecnologie della memoria» (ivi, p. 79).
Nel chiederci cosa sono state le immagini per i nostri antenati, prima che dei documenti scritti intervenissero ad attestare le loro visioni del mondo, ci chiediamo in fondo cosa sono, e cosa saranno nel futuro, le immagini per noi: rappresentazioni delle cose? Mezzi di comunicazione? Diagrammi attraverso cui interpretare la realtà in maniera astratta? Programmi di implementazione di processi operativi? Elementi puramente decorativi, relegati alla sfera del cosiddetto “tempo libero”? Spazi di rigenerazione dell’identità individuale e collettiva? Il libro fa sorgere tutte queste domande e altre ancora, perché sollecita l’idea che la cultura visuale, di cui sono qui indagate le origini, ci offra i primi indizi e le prime testimonianze sulle nostre origini. Per questa ragione la boutade della regressione allo stile dell’arte rupestre in Peckham Rock di Banksy (ivi, pp. 64-66) ci dice forse qualcosa di più profondo del semplice ricorso al pastiche postmoderno, usato per fare satira.
In conclusione, vorrei provare a indicare due nodi teorici su cui, a mio avviso, la paleoestetica potrebbe svilupparsi in futuro; si tratta anche di ponti verso due discipline che sono state finora solo enunciate come partner possibili di un progetto paleoestetico. Il primo nodo riguarda la possibilità di pensare immagini, manufatti, opere d’arte e oggetti estetici in genere come «oggetti transizionali» alla maniera in cui ne parla lo psicoanalista inglese Donald W. Winnicott (ivi, p. 154). Winnicott pensa che il bambino elegga oggetti o fenomeni, a cui attribuisce funzioni e poteri irreali. Ma questa immersione nell’illusione è fondamentale per il bambino in quanto accompagna il progressivo distacco dalla madre e avvia una scoperta autonoma della realtà. L’oggetto transizionale apre uno «spazio potenziale (potential space) tra l’individuo e l’ambiente» (ivi, p. 159). L’idea di pensare tutti o una buona parte dei nostri dispositivi di visione come oggetti transizionali è affascinante: non solo ci consente di uscire da alcune delle strettoie teoriche e culturali del concetto di opera d’arte, ma dà corpo anche all’idea che le immagini non sono tanto strutture di riconoscimento della realtà quanto forme di interazione con la realtà. Questa idea offre pure un modello per pensare la libertà, tanto creativa e immaginativa quanto operativa e pratica, dell’individuo non come un evento di assoluta rottura con il passato e con la tradizione, bensì come lo sforzo, inevitabile, di ridare senso alle cose attraverso un processo fatto di continue fratture e ricomposizioni. La domanda che sorge, allora, è se e in quale misura i fenomeni e gli oggetti preposti alla transizione dell’individuo possano essere “abusati”, ovvero preventivamente “standardizzati”, da una cultura orientata al controllo e all’omogeneizzazione delle esperienze. Assumendo in via di ipotesi che la nostra epoca corra effettivamente un rischio del genere, ci troveremmo di fronte a una svolta nella storia della cultura visuale umana?
L’altro nodo teorico riguarda il rapporto con il cinema e l’individuazione di una “scena originaria” della visione. Cometa ricorda come la teoria e la storia del cinema siano tornate più volte sull’analogia tra la sala cinematografica e le grotte preistoriche: lo fanno ad esempio Edgar Morin nel saggio Il cinema o l’uomo immaginario e Werner Herzog nel documentario Cave of Forgotten Dreams (ivi, p. 130). Il cinema ha il suo mito della caverna, che nasconde l’idea secondo cui l’esperienza preistorica delle immagini fosse già un’esperienza in qualche modo ritualizzata, cinematica e multimediale. La grotta preistorica offriva un’esperienza filmica avant la lettre; ovvero il cinema non fa altro che soddisfare un bisogno arcaico. Questa idea tocca la natura della prestazione di “esonero”, ovvero di sgravio psichico ma anche fisico, a cui il cinema sembra prestarsi più e meglio di altre forme moderne di messa in immagine. Cometa si era già interrogato sulla questione, confrontandosi tra l’altro con le ipotesi avanzate da Francesco Casetti. La questione, in fondo, è la seguente: l’esonero prodotto, o meglio riprodotto, dal cinema è il ripetersi di una costante culturale? Siamo assorbiti dallo schermo nella sala buia, o ricreiamo le stesse condizioni nello spazio domestico attraverso un home theater, perché in definitiva abbiamo bisogno di tornare nelle grotte della preistoria? Oppure nell’arco di queste ripetizioni avviene una trasformazione nel nostro modo di sentire? La cultura visuale evolve solo nei formati o anche nelle forme della visione? Per dirla con una felice battuta di Michele Cometa, quale sarà la paleoestetica dell’Antropocene?
Michele Cometa, Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale, Raffaello Cortina, Milano 2024.