Ci vuole un grande sforzo e una buona dose di incoscienza per pensare insieme due opere così distanti – Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, All’uscita di Luigi Pirandello – al di là della musicalità del titolo, che pare evocare l’immagine di un pugno di commedianti prendere commiato dalla scena, Pagliacci all’uscita di Roberto Latini si colloca tra quei lavori un po’ disturbanti che ricordano una certa post-avanguardia, ma senza permettersi di toccare con un solo dito il testo. Invece di un taglia e cuci che garantirebbe il primato dell’elemento visivo, nulla è sottratto all’atto unico di Pirandello o alla penna del librettista Leoncavallo, ma tutto alla sua musica – o quasi.
La cantabilità che il libretto trattiene non è difatti quella immaginata dal suo compositore, ma un’altra che con coraggio sacrifica il passato e trasfigura la famosa aria Vesti la giubba in un “solo” affidato alla voce di Marcello Sambati. È di certo uno dei momenti più significativi dell’intero spettacolo, che pare costruirsi sull’efficacia dei momenti chiusi, quelli che una volta si sarebbero chiamati “grandi tirate”, ma che in Pagliacci all’uscita sembrano qualcosa di più: un passaggio di staffetta tra attori ben amalgamati (Roberto Latini – che è anche regista, Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati, appunto). Sono tra i migliori del nostro teatro, una squadra di fuoriclasse che non nasconde il piacere di trovarsi insieme sul palco. Finché non capita di vederlo, quel piacere, non ci accorgiamo quanto sia davvero importante il disegno registico e non sospettiamo quanto decisivo fosse una volta il lavoro di una compagnia ben affiatata.
Se in queste poche righe mi è capitato di ricorrere spesso a termini un po’ desueti e che paiono del tutto superati dalle pratiche teatrali sopravvissute alla storia, è perché, nei modi più impensati e nelle circostanze più minute, qualcosa mi è sembrato riaffiorare. Ad esempio potrei dire essere successo già nel Prologo, quando il raglio di asino di Ilaria Drago, quasi un singhiozzo, mette in discussione le nostre convinzioni sul rapporto realtà-finzione, anche se Leoncavallo le fa comunque dire: «L’autore ha cercato invece pingervi uno squarcio di vita» (Leoncavallo 1892, p. 13); o ancora nel “Pagliaccio non son” di Latini – dove la potenza dell’attore si ritrova ancora una volta a galoppare in una escalation emotiva tutta riflessa nel climax musicale creato da Gianluca Misiti.
Bisogna poi dire di Savino Papanella cui è affidato il piacere di ricordarci che il teatro può essere tanto corpo insieme alla parola, grazie al mestiere; di mestiere è fatta anche la risata di Elena Bucci, che suggerisce come davvero Pirandello volesse sentirla «gorgogliare nelle viscere» quella «terribile, terribile […] risata» (Pirandello 1995, p. 104). Di Sambati ho già detto, ma bisogna almeno aggiungere che dalle sue mani sono riuscita a vedere volar via un palloncino che nelle sue mani non c’era. È già solo con questi esempi che il teatro degli attori e delle attrici ci ricorda di essere vivo, sopravvissuto a una storia che ha provato a mortificarlo tra tradizione e innovazione, fra continuità e discontinuità.
L’energia di Pagliacci all’uscita si accende dal fondo della professione, grazie al serbatoio ricco di ferri del mestiere, tutti rivolti all’efficacia della presenza scenica. Attori e attrici sanno bene che quel valore va ripescato tra gli attrezzi di lavoro: pantomima, commedia dell’arte – più che considerarli generi bisognerebbe pensarli come sostanza della composizione teatrale. Un livello che mai è potuto mancare nelle diverse epoche del teatro, e che il teatro ha aiutato a sopravvivere. Lo diceva bene Mejerchol’d che:
Prima ancora di aver varcato la soglia sacra, colui che viene dal paese delle meraviglie è pervaso di una fede solida: sa che ogni opera d’arte comporta, attraverso la personalità del suo creatore, visioni dimenticate di un passato lontano, di cui ha potuto soltanto sfiorare i segreti, e del quale gli uomini concepiscono la realtà non secondo i libri, ma secondo le parole e i gesti di colui che sembra risuscitato dai morti. Che c’è di strano nel fatto che il creatore contemporaneo ci dia sovente l’impressione di essere già vissuto una volta, sulle piazze di Napoli alla fine del Rinascimento, intorno al Globe Theatre all’epoca dell’old merry England, in un ridotto veneziano o in un teatro della fiera del Faubourg Saint-Germain? Prima ancora di aver varcato la soglia sacra, il nuovo attore sa già che dalla sua maestria tecnica dovrà nascere un’opera in cui la sua personalità si manifesterà attraverso una maschera che dissimula in lui i tratti di un’altra maschera che altri in altre circostanze, hanno già visto (Mejerchold 1972, p. 114).
Ho ricordato queste parole quando, sul finale dello spettacolo, gli attori si sono immersi in tre grandi vasche piene d’acqua. In quel momento, con Pirandello alla mano, la lettura rischia di posizionarsi a un livello elementare: le apparenze – come le chiama l’autore – si distaccano definitivamente dalla vita e rimangono a galleggiare in un momento infinito. Ma se invece delle “apparenze” seguiamo il suggerimento del prologo e ricordiamo che sulla scena c’è uno “squarcio di vita”, quelli che vedremo saranno gli attori, Bucci, Drago, Latini, Papanella, Sambati, immersi in quelle vasche gelate che promettono di congelare i corpi venuti dal passato. Riusciremo a vederli come spettri di un tempo non troppo lontano, custodi dell’arte attorica, eppure proiettati nel futuro che, tra tutte le indecisioni di questo tempo, garantisce la certezza di un’arte che mai muore, al di là di ogni cattivo auspicio.
Sembra che fino ad ora abbia parlato poco della regia, non abbia detto del doppio palco per metà invaso dall’acqua, dei costumi eccezionali (di Rossana Gea Cavallo), delle luci (di Max Mugnai) che con pochi tocchi hanno saputo ricordare il circo ed evocare il sogno; mi sono invece limitata a raccontare una porzione dello spettacolo visto e del teatro a venire. Facendolo mi sono accorta di quanto importante sia il libretto di sala, uno strumento utile che varrebbe la pena leggere sempre con attenzione (a chi si trova a commentare a caldo lo spettacolo e scriverne poi a tiepido) e che ho fatto bene a non trascurare perché sostiene il mio commento, o mi pare lo faccia: «Il Teatro nuovo è all’indomani di una giornata di sole e coltello e di un notturno di cimitero e ombre. All’uscita da Pagliacci, è il vero appuntamento» – che è ben diverso dal dire “Pagliacci all’uscita”.
I commedianti non stanno andando da nessuna parte, e non si congedano affatto dalla scena, è solo il pubblico a cui tocca muoversi, allenare lo sguardo, pensare a una scena nuova in cui ancora agli attori spetta l’ultima parola. Lo sforzo e l’incoscienza di cui parlavo all’inizio – che mettono insieme due opere di altri tempi, anche tra loro distanti (Pagliacci, 1892; All’uscita, 1922) – avrei dovuto chiamarlo semplicemente coraggio di volersi emancipare dal teatro di oggi, senza rifiutare quello del passato.
Riferimenti bibliografici
R. Leoncavallo, Pagliacci, Casa Musicale Sonzogno, Milano 1892.
L. Pirandello, All’uscita, Mondadori, Milano 1995.
V. Mejerchol’d, Ecrits sur le Théâtre – tomo II: 1891-1917, trad., préf. et notes de B. Picon-Vallin, La Cité–L’Age d’Homme, Lausanne 1975.
*La foto in copertina è di Manuela Giusto.
Pagliacci all’uscita. Testi: Ruggero Leoncavallo, Luigi Pirandello; regia, sceneggiatura, scenografia: Roberto Latini; costumi: Rossana Gea Cavallo; interpreti: Roberto Latini, Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati; durata: 70′; anno: 2023.