All’ingresso della bella mostra Ovidio. Amori, miti e altre storie (a cura di Francesca Ghedini), che si è appena conclusa alle Scuderie del Quirinale, il visitatore si trovava immerso in un’installazione site specific di un maestro dell’arte concettuale, Joseph Kosuth, Maxima proposito (Ovidio), in cui alcuni neon di vario colore riportano brevi citazioni dalle Metamorfosi. Non poteva esserci inizio migliore: Ovidio è il poeta più autoriflessivo e metaletterario dell’antichità, ed è perciò in piena consonanza con un’arte che si concentra sulla propria definizione. Kosuth lavora da sempre sul rapporto fra parola e immagine: sulla sua scia tutto l’allestimento assai efficace delle varie sale intrecciava di continuo i versi e i racconti di Ovidio con opere delle arti visive di tutti i generi e di tutte le epoche, con una prevalenza dell’antichità classica (la curatrice è un’archeologa, che ha appena pubblicato da Carocci un profilo di Ovidio), del Rinascimento e del Barocco.
È un peccato infatti che, dopo questo inizio, la mostra abbia un po’ perso di vista il contemporaneo: accanto a quadri, statue, bassorilievi, incisioni, gemme, specchi, cammei, e illustrazioni, ci sarebbero state bene anche opere di videoarte (ad esempio Bill Viola), e sequenze dei due film interamente dedicati alle Metamorfosi, usciti entrambi nel 2014: Métamorphoses di Christopher Honoré e Amori e metamorfosi di Yanira Yariv. Ovidio è in sintonia non solo con il concettuale, ma con tutta la poetica del postmoderno (che si potrebbe quasi definire una nuova aetas ovidiana), se pensiamo al gioco con la tradizione, al montaggio di allusioni e citazioni, alla smaccata visualità e teatralità: una sintonia espressa al meglio dal romanzo Il mondo estremo di Christoph Ransmayr, dedicato all’esilio a Tomi, in cui mito, storia, biografia e cinema si mescolano continuamente fra di loro. È un’estetica della metamorfosi, che caratterizza tutto l’immaginario intermediale della nostra epoca, e che ha, come in Ovidio, profonde implicazioni filosofiche: diventa una visione del mondo.
Come scrive giustamente Alessandro Schiesaro nello splendido catalogo pubblicato da Arte’m, «Ovidio è il primo teorico implicito, ed esplicito cantore, del postumano: di corpi alterati secondo le leggi di una biologia alternativa». È bene ricordare che questa categoria epistemologica, che valorizza le ibridazioni fra umano e non umano (animale, macchina, o altro), nasce con una mostra di arte contemporanea, Post Human, curata nel 1992 da Jeffrey Deitch, ed è esemplificata al meglio da artisti come Orlan o Sterlac, o dal cinema di Cronenberg.La mostra si articola su tre nuclei fondamentali: l’opera di Ovidio, con particolare attenzione al tema dell’amore, rappresentato «come forza dominante, pervasiva e contagiosa del mondo» (così Gianpiero Rosati nel catalogo); il rapporto con il potere, e quindi la dissonanza fra la visione ovidiana disincantata e libertina dell’eros, applicata anche agli dèi e al sommo Giove, e la difesa della tradizione italica e della famiglia propugnata da Augusto; e infine le Metamorfosi, enciclopedia del mito che ha forgiato l’immaginario occidentale. In quest’ultima sezione si trovano infatti le opere più affascinanti, soprattutto nell’ambito della pittura seicentesca, dato che il barocco ha una grande affinità con la poetica ovidiana: li accomunano il pathos melodrammatico, la teatralità, la labilità dei confini fra realtà e finzione (d’altronde non è un caso se la nostra epoca è stata spesso definita neo-barocca).
Impressionante da questo punto di vista la sala dedicata al mito di Adone – un mito sul desiderio femminile e sulla passività maschile, secondo la lettura di Alessandro Grilli in Storie di Venere e Adone (Mimesis, 2012); si fronteggiano una serie di splendidi quadri in cui la dea è raffigurata come un’eroina di teatro, mentre la bellezza del corpo riverso del ragazzo è sottolineata da contrasti cromatici: la Morte di Adone (1647) di Holstejn, il capolavoro di Ribera Venere scopre il corpo di Adone (1637), la Morte di Adone (1620-30) di Emilio Savonanzi, la Morte di Adone (1639) di Gian Francesco Gessi e Venere piange Adone (1650 circa) di Michele Desubleo, interessantissimo pittore influenzato da Guido Reni (e fratellastro di Nicholas Regnier), di cui la mostra propone anche l’Atalanta e Meleagro.Si susseguono poi miti che raccontano rapimenti, amanti abbandonate, come Arianna (struggente l’affresco pompeiano proveniente dall’Archeologico di Napoli), passioni e ossessioni fuori dall’ordinario (Salmace ed Ermafrodito, Narciso), cacce infauste (colpisce La morte di Ippolito di Joseph Désiré Court, con cui siamo al neoclassicismo di primo Ottocento, venato di un gusto necrofilo), folli voli e cadute (bellissimo il Dedalo ed Icaro di Andrea Sacchi, con il contrasto fra il corpo diafano del ragazzo investito dalla luce e il corpo scuro del padre; o i tre piccoli oli di Carlo Saraceni, un caravaggesco temperato del circolo di Adam Elsheimer, ben presente in mostra); fino alla conclusione su Ganimede, icona del desiderio omoerotico (molto sensuale il Ratto di Ganimede di Damiano Mazza del 1575, mentre il bronzo di Ammannati, del 1550 circa, rovescia il rapporto fra rapitore e rapito), letta come figura dell’apoteosi del poeta e del suo trionfo sul tempo.
Pochi giorni prima della chiusura della mostra le Scuderie del Quirinale hanno ospitato la presentazione del saggio di Paolo Isotta La dotta lira. Ovidio e la musica, appena pubblicato da Marsilio, in cui l’autore ha brillantemente dialogato con la curatrice della mostra, Francesca Ghedini. È un saggio ricchissimo e appassionante, che dimostra, attraverso una serie di percorsi paralleli (quasi saggi nel saggio), come Ovidio abbia svolto un ruolo fondamentale anche nella storia della musica: la nascita dell’opera, i miti di Orfeo, Arianna e Medea, Händel e l’opera barocca, il sinfonismo e l’ekphrasis musicale; per concludersi con Strauss e con D’Annunzio, «due fratelli di Ovidio». Alternando commenti acuti ai testi latini (da cui emerge una coscienza tecnica della musica da parte di Ovidio) e analisi serrate e approfondite delle opere musicali, Isotta attraversa rapsodicamente epoche, generi, autori (da Monteverdi a Britten, da Bach fino ai giorni nostri con Scappucci e Birtwistle), topoi di lunga durata come il contrasto di affetti, e prospettive culturali significative come il panteismo e l’ateismo.
Poeta del desiderio, dello sguardo e del suono, Ovidio appare così oggi sempre di più un archetipo della sinergia fra i sensi e fra le arti che ha animato le poetiche del simbolismo e dell’estetismo, e che oggi chiamiamo intermedialità.
Riferimenti bibliografici
F. Ghedini, a cura di, Ovidio. Amori, miti e altre storie. Catalogo della mostra, Arte’m, Napoli 2018.
P. Isotta. La dotta lira. Ovidio e la musica, Marsilio, Venezia 2018.
C. Ransmayr, Il mondo estremo, Feltrinelli, Milano 2009.