Laura (Rashida Jones) e Dean (Marlon Wayans) sono novelli sposi. Sono seduti al tavolo nuziale: lei ha uno sguardo esitante (forse ricorda l’ammonimento del padre: “Non dare il tuo cuore a nessun ragazzo. Tu sei mia, finché non ti sposerai… poi sarai comunque mia”) ma pienamente fiducioso, e guarda il suo uomo, la cui figura è esaltata dai contorni neri della giacca. Si ricambiano i sorrisi, i loro ruoli non del tutto “istituzionalizzati” fanno sì che il desiderio possa coglierli in qualsiasi momento, irriguardoso delle regole della creanza. I due non hanno ratificato l’atto di vicendevole proprietà – il matrimonio in quanto negozio giuridico – e il loro legame può riassumersi nell’immagine-desiderio per eccellenza: una vorticosa e anulare tromba delle scale. Ma il passo dal turbamento sensuale selvaggio (“qualitativo”) alla prestazione sporadica (“quantitativa”) sembra breve.
On the Rocks (2020), settimo lungometraggio di Sofia Coppola, disponibile sulla piattaforma Apple TV+, già bollato in più occasioni come un divertissement discontinuo, prosegue invece un percorso autoriale molto coerente. L’immagine-desiderio che suggella la prima sequenza del film sancisce un ritorno, un’impronta figurale che contraddistingue la filmografia della regista newyorkese. La sua più grande dote registica è quella di costruire i propri film inanellando le sequenze e le situazioni attorno a un nucleo vuoto che, nella sua polimorfia, può farsi a volte cassa di risonanza dell’inconsistenza degli scambi verbali (gli anodini incoraggiamenti del marito volti a sostenere la moglie, scrittrice in piena crisi creativa, quei programmatici e distratti “Devi solo iniziare”, puntellati da “Ti amo” fluttuanti) o, in altri casi, nocciolo duro che un gesto ribelle prova a scalfire (Il giardino delle vergini suicide, 1999, Marie Antoinette, 2006, Bling Ring, 2013, L’inganno, 2017). O, ancora, come nell’apertura di Somewhere (2010), in cui la macchina da presa rimane immobile e non segue la Ferrari rombante mentre disegna un anello ellittico sull’asfalto del circuito, poiché di fatto non sta andando da nessuna parte. Sofia Coppola riesce così dapprima a smorzare la potenza pressante del fuori campo, per poi assestare, come un’abile spadaccina, un colpo capace di far cambiare il segno della carica: dalla solitudine insita nella coazione a ripetere, alla mancanza dolorosa per una persona lontana (Somewhere); dal senso di estraneità suscitato da una megalopoli sconosciuta, alla dolcezza “aggraziata” dell’incontro (Lost in Translation, 2003); dalla tempesta tropicale che recide i collegamenti, alla bonaccia che infonde consapevolezza e saggezza retrospettiva da cui ripartire per riprogettare il proprio futuro (On the Rocks).
Perché, nel caso si decida di adottare una visione manichea (contrassegnata letteralmente ma anche cromaticamente dal bianco o dal nero), il matrimonio può davvero diventare la tomba della passione, e l’immagine-desiderio tramutarsi in quella di un risveglio soffuso, accompagnato da coccole e teneri baci, subito infranto dalle rimostranze delle figliolette. Le incombenze quotidiane rendono Laura – che è madre, scrittrice, figlia a sua volta – forse un po’ meno moglie. Le pressioni di un mondo lavorativo ultra-competitivo che nella sua conformazione “liquida” (o forse meglio “gassosa”) travolgono Dean che è padre, imprenditore e marito maldestro, le cui attenzioni sempre più intermittenti finiscono per fomentare le perplessità della moglie. È tutta una questione di luce che – come le rammenta Felix, suo padre (Bill Murray) – i figli finiscono col sottrarre al marito, quegli stessi figli a cui, a un certo punto, si chiederanno attenzioni per vivere una vecchiaia meno solitaria.
Per riflettere sul matrimonio bisogna allora guardare al legame primigenio, al nucleo familiare all’interno del quale i figli dovrebbero sviluppare l’autoconsapevolezza tramite cui comprendere il concetto di “proprietà” nella sua accezione meno tirannica, in direzione della celebre massima di Montaigne: “Bisogna prestarsi agli altri e darsi a sé stessi”. È nella crescita che i personaggi coppoliani saggiano il senso e il peso della libertà, la quale confina con il coraggio di prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Da qui la tematizzazione, costante all’interno del suo cinema, del rapporto genitori-figli, secondo una dialettica che, alla severità (Il giardino delle vergini suicide), alla distanza (Marie Antoinette, Lost in Translation) o all’inadeguatezza (Somewhere, Bling Ring) dei primi, comporta una differente reazione e posizionamento nel mondo dei secondi. Fanno la loro comparsa, spesso, soggetti deprivati di ogni forma di agency, a proprio agio soltanto all’interno di spazi ristretti e ben perimetrati, prigioni più o meno dorate (e/o figurate) nelle quali ci si auto-percepisce, ma soltanto vivendo immersi in una realtà allucinata, nel falso movimento.
Il movimento può divenire reale soltanto nel momento in cui la carica cambia di segno e ha luogo un’inversione: così Laura, maestra insuperata nell’arte della pianificazione, e Dean, manager assorto nei propri viaggi di lavoro e mentali, saggiano la propria libertà individuale – che li condurrà al riavvicinamento – ricoprendo ruoli cui non sono adusi, rimarcati inoltre dall’inversione cromatica. In modo analogo, alcuni gesti e atteggiamenti “d’altri tempi” – per quanto possano lasciar presupporre una mentalità retrograda, villana, prona a vacui rituali – possono dare pienezza alla vita, se correttamente interpretati, eseguiti, qualora si riesca ad acquisire un’agency: non solo ruoli biologici occupati per “mantenere la specie”, ma per tenerla insieme.
Non appena gli indizi di un possibile tradimento da parte del marito passano dalla pura astrazione mentale della donna a vera e propria detection, innescata dal padre, Laura, assunte delle tinte premingeriane, indosserà una blusa nera, mentre Dean farà a meno della giacca, in favore di una camicia bianca e inamidata. On the Rocks è allora un elogio delle sfumature, delle tonalità grigio-verdi che colorano il finale, in cui il compromesso, o meglio l’apertura dialogica, erode le contrapposizioni nette, permettendo di discernere tra la cosa e il suo riflesso e, dunque, di capire a che cosa si guarda (all’oliva immersa nel Martini o alla sua immagine riflessa) e cosa si sta inseguendo, e rimettere in moto, di conseguenza, le proprie abilità performative. All’immagine-desiderio può sostituirsi un’immagine-riflesso, altrettanto traviante, come quella della scatola del regalo che diventa un oggetto sintomatico del (presunto) distacco e disinteresse.
Scegliendo di prestarsi ai giochi investigativi del padre, Laura entra in contatto con la propria “pancia” – non solo grembo materno, ma anche luogo in cui si raggrumano le sensazioni preverbali – imparando a fischiare e rinunciando a un’esistenza vissuta unicamente “di testa”. Il gioco serissimo innescato dal padre – che in un primo momento, pur con tutte le sue pecche genitoriali, appare agli occhi della figlia modello insuperabile – fa sì che il compleanno (di lei), passato con il marito in un localino chiassoso in cui è semplicissimo evitare il confronto, non si trasformi nell’occasione che fa precipitare la situazione nel melodramma, nel «mutismo» che mantiene «il personaggio chiuso in se stesso» (De Gaetano 2014, p. 63).
Il film, invece, non racconta «il passaggio da uno stato illusorio alla sua frantumazione, e cioè alla fine, effettiva o simbolica» (ivi, p. 64), ma scandisce un viaggio che conduce Laura, “gialla” di gelosia, nella wilderness (un po’ trendy) messicana, alla frontiera da valicare col rischio di scoprire una spiacevole verità – che il proprio matrimonio sia “on the rocks”, incagliato, naufragato – oppure di rendersi disponibile a un nuovo inizio, poiché: «[…] Solo coloro che sono già sposati si possono autenticamente sposare. È come se sapessimo che si è sposati quando si giunge a capire che non si riesce a divorziare, cioè quando si trova che le proprie vite semplicemente non si districano. Se l’amore è fortunato, questa conoscenza verrà salutata dalle risate» (Cavell 1999, p. 105). Le vite di Laura e Dean, così come quelle di Laura e Felix, sono indistricabili. Entrambi le donano due orologi e nessuno dei due è l’immagine-riflesso dell’altro: solo due forme diverse di amore e l’unica forma di tempo di cui si può disporre, quello che si ha e si dà in dono all’altro.
Riferimenti bibliografici
J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013.
S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999.
R. De Gaetano, a cura di, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, vol. I, Mimesis, Milano 2014.
On the Rocks. Regia: Sofia Coppola; sceneggiatura: Sofia Coppola; fotografia: Philippe Le Sourd; montaggio: Sarah Flack; musiche: Phoenix; interpreti: Bill Murray, Rashida Jones, Marlon Wayans, Jenny Slate, Jessica Henwick, Barbara Bain, Nadia Dajani; produzione: American Zoetrope; distribuzione: Apple TV+; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2020; durata: 96′.