Eugène Green è un tracciatore di luce. Con la sua macchina da presa, attinge al fondo delle cose, dei paesaggi e degli esseri, non per trasfigurare il reale, ma per lasciare che il sublime sbocci nel cuore di esso. Al contempo dentro e fuori dal suo tempo, riprende la pittura, ma anche la fotografia che sembra animarsi al chiarore delle candele. Un anno fa, decido di scrivergli per esprimergli il mio abbaglio. Lo incontro. Vedo tutta la sua opera in un colpo solo. Rapimento. Non c’è da stupirsi che siano stati i maestri italiani (Antonioni, Fellini…) a fargli venire la voglia di fare cinema, poiché anche lui ha “uno sguardo pieno di umanità e compassione verso i suoi personaggi”. Ancorati in un mito o in un periodo storico preciso pur distaccandosene, detengono sempre una dimensione metafisica, poetica, un che di ineffabile eppure tacitamente percepito dagli spettatori di ieri e di oggi.
I diciotto film che realizza possono essere analizzati come parabole, ma anche come esercizi pratici che illustrano la sua poetica. In un saggio intitolato Poétique du cinématographe (2009), giustifica le sue scelte estetiche, sviluppa la sua propria teoria del cinema: «pensare il cinema, è risolvere dei problemi concreti: struttura narrativa, immagine, suono, lavoro degli attori. Ma è innanzitutto situarsi rispetto alle principali interrogazioni metafisiche dell’uomo occidentale, poiché è da esse che è nato il cinematografo». I fratelli Dardenne hanno co-prodotto un gran numero dei suoi film e Mathieu Almaric, Cécile de France, Denis Podalydès, Jérémie Renier, Alexis Loret e, tra i più ricorrenti, Natacha Régnier, Christelle Prot, Adrien Michaux, sono passati alla rinfusa davanti alla sua macchina da presa. In occasione dell’uscita del suo ultimo film, L’Arbre de la connaissance, abbiamo ritenuto che fosse giunto il momento di ricordare il genio di questo cineasta, che di film in film non smette di sorprendere, sconvolgere e emozionarci.
Eugène Green coltiva l’arte dell’apparizione dei suoi personaggi. Con la macchina da presa immobile, li lascia entrare nell’inquadratura, attraversarla e poi uscirne. Niente/personaggio/niente. È in questa attesa, e poi in questa apparizione, che tutto si gioca ogni volta. In questo modo, mette lo spettatore in una certa posizione, un’aspettativa. Si è in un certo senso un signor Jourdan, che accetta di farsi sorprendere, come nella lettura di Que Ma joie demeure (Giono, 1935), non si aspetta Bobi, ma Sarah, Alexandre, Jules o Pierre. Nelle primissime sequenze che seguono i titoli di testa di Atarrabi et Mikelats (2021), per esempio, quando il giovane mortale apre la porta alla dea Mari, la porta che si dischiude lentamente e il travelling ascendente dai piedi fino al volto del personaggio, sembrano dare corpo a questo passaggio cruciale dell’incontro di Bobi e Jourdan nel romanzo, non attraverso le parole del film, ma attraverso quegli strumenti di messa in scena a cui ricorre.
Una poetica cinematografica può quindi avere un’influenza diretta sullo spettatore, creando movimenti interni che possono trasformarlo. Costretti all’incontro, alla contemplazione della creazione, si guarda parlare i personaggi, si ascoltano i loro silenzi e ci si lascia affascinare per un tempo di meraviglia che prosegue ben dopo la proiezione. L’azione si nasconde nei gesti apparentemente banali dell’uomo – brindare, cantare, scrivere, camminare – che reimpara a farsi toccare e ad amare. Eugène Green ha il gusto della sineddoche, ama riprendere i piedi, i loro movimenti quando girano, scendono le scale o superano una soglia, lo slancio dei corpi che si avviano, i bicchieri che tintinnano, una caterva di micro-gesti portatori di senso. Così, si capisce che è perché la gioia a volte vacilla che è così preziosa come la fiamma di una candela. Molto spesso, lo schermo si apre su una parte di cielo o su un piano d’acqua. La macchina da presa scivola allora lentamente sul paesaggio finché, con un battito di ciglia, con un semplice ammiccamento, il personaggio emerge, perfettamente nitido, mentre il mondo che lo circonda si sfuma in una sfuocatura controllata. L’effetto sembra magico. La rigidità e il laconismo dei suoi personaggi richiamano quelli dei film di Aki Kaurismaki, come in L’altro lato della speranza (2017), ed è proprio in quelli di Eugène Green che si trova la speranza. Alla maniera di Vermeer in pittura, si tratta di liberare il reale da tutto il superfluo a favore della luce e dello spazio. I personaggi, interamente concentrati sulla loro ricerca, si muovono così in scenografie semplificate e non hanno quasi bisogno di lunghi discorsi.
Per molto tempo, le candele sono servite a misurare il tempo. Si dice siano state inventate da Alfredo il Grande nel IX secolo per scandire le ore delle sue preghiere notturne. Eugène Green le mette al servizio di una visione molto personale e poetica del cinema. La loro presenza non è la volontà di proporre un realismo storico, le usa piuttosto con un intento stilistico e filosofico, sono un elemento centrale della sua messa in scena. Grazie a esse, le sue riprese diventano veri e propri riti religiosi. È il procedimento che strega l’attore o lo spettatore che è stregato da questi volti e questi occhi incandescenti, o forse entrambi? Il luccichio percepibile sulla pupilla dei suoi attori e delle sue attrici che riprende in primo piano, l’energia prodotta dalla loro combustione, sembra moltiplicare l’energia del loro sguardo in macchina, nobilitando il loro volto. Per il cineasta, la luce non è solo un mezzo per illuminare, è una presenza a pieno titolo che guida lo spettatore e dà senso all’immagine. I suoi lunghi piani fissi, le sue inquadrature precise e i suoi dialoghi privi di ogni intonazione psicologica sono messi in risalto da una luce che sembra emanare direttamente dalla materia, come nei quadri barocchi che ammira. Essa crea un’atmosfera, un chiaroscuro che simboleggia il visibile e l’invisibile, lo spirituale e il materiale.
Nel corso di tutti i suoi film, Eugène Green esplicita il suo approccio, mostra le sue fonti. In Le Pont des Arts (2004) la sequenza in cui gli spettatori guardano e ascoltano uno spettacolo di Nō tutti avvolti dal luccichio delle candele, appare come una Adorazione dei pastori di Georges de La Tour. In Le Fils de Joseph (2016), i movimenti della macchina da presa ci accompagnano nella lettura del quadro di Caravaggio, Il Sacrificio di Isacco, anticipando al contempo la sequenza successiva. Con Le Mur des morts (2022), riesce a far dialogare un soldato del 1914 che parte per la guerra con un giovane d’oggi, in preda alla malinconia. Il passato diventa presente e permette di abitare meglio il nostro mondo attuale. Attraverso tutti i suoi film, le referenze si intrecciano per formare una trama dai motivi unici, egli sovrappone diverse stratificazioni della storia all’interno di un medesimo oggetto filmico, riannoda i fili con il mito, sottolineando, non senza umorismo, l’immutabilità delle nostre esistenze, la vanità delle nostre agitazioni.
Fine osservatore del mondo che lo circonda e delle sue trasformazioni, la sua macchina da presa spazza l’insieme dei paesaggi – non solo in orizzontale, ma anche in verticale con dei travelling ascendenti – come scansionandoli in tre dimensioni al fine di rivelarne i minimi interstizi. In questo modo, permette di osservare in modo bifrontale – verso l’interno e l’esterno – un medesimo paesaggio di Lisbona in La Religieuse portugaise (2009), l’architettura di Borromini a Roma in La Sapienza (2014) o il volto luminoso di Jules in Toutes les nuits (2001). A volte mostra persino il processo di creazione, la ripresa in atto, si mette in scena egli stesso, ora come receptionist, ora come cameriere o ancora nel suo stesso ruolo di regista con tutta la sua équipe che inserisce nella diegesi e rende così visibili coloro che generalmente appaiono solo attraverso il loro nome scritto nei titoli di coda. Sebbene renda ultra visibile la fonte, la mostri e la nomini persino direttamente a volte, il nocciolo del suo discorso non è lì. Si trova nel recesso delle porte socchiuse, nell’interstizio e nei silenzi, che appaiono come altrettanti inviti a fondersi nell’immaginazione. Sta allo spettatore immaginare la scena, ciò che si svolge tra l’interno e l’esterno dell’inquadratura, di mettersi al posto di questo o quel personnaggio, relazionandosi inevitabilmente con “l’altro”, con un’alterità.
Mettendo in scena i suoi attori come spettri, attraverso un gioco antinaturalista, uccide la psicologia dei suoi personaggi, li estirpa da ogni forma di realismo per farli rinascere veramente – attraverso i movimenti che li attraversano dall’interno – alla vita, alla gioia. Eugène Green è un creatore di ottimismo, permette di “far vivere ogni parola, come se fosse una scultura”, scuote lo spettatore, crea uno scarto nelle sue abitudini; deve accettare il protocollo, accettare che il “mistero rimarrà sempre impenetrabile […] il compito dell’uomo è di scorgere tracce di luce nell’oscurità, come un cacciatore che insegue una bestia seguendone le tracce, finché non raggiunge l’epifania di una conoscenza reale del presente eterno”.