Un sondaggio di alcuni anni fa ha decretato che l’episodio più scorretto della (già di per sé controversa) serie televisiva I Simpson sia Il direttore e il povero. È la puntata in cui veniamo a sapere che l’insospettabile direttore Skinner non è e non è mai stato chi diceva di essere. Che il suo vero nome è Armin Tamzarian, teppista da due soldi che, nel bailamme del Vietnam, è riuscito a scambiare la sua identità con quella di Seymour Skinner, morigerato mammone con il sogno di fare l’insegnante. A rendere l’episodio così infame è il fatto che, nonostante il vero Skinner torni a Springfield a reclamare il proprio legittimo posto, la città (mamma Agnes inclusa) scelga infine di tenersi l’impostore ed esiliare il Seymour “autentico”, assecondando così l’orribile paradosso in cui le copie finiscono per arrogarsi maggior diritto d’esistenza dei loro corrispettivi originali.
Avete presente la storia del concorso per sosia di Charlie Chaplin a cui, si racconta, il Chaplin in carne e ossa si classificò solo terzo? O la leggenda che circola sulla presunta morte di Paul McCartney, repentinamente sostituito da un doppio migliore di lui? Ecco. E una simile inversione non è forse in atto anche con il Dracula di Bram Stoker e il suo ormai centenario rivale, il conte Orlok? Non è forse vero che, a oggi, l’escamotage di Friedrich Murnau per portare al cinema un’opera di cui non possedeva i diritti abbia rispettivamente reso Dracula uno Skinner e Nosferatu un Tamzarian?
Il modo peggiore per leggere un simile meccanismo è di appellarsi a un (dopotutto infantile) elogio della sovversione, come a dire: laddove il Dracula di Stoker è l’emblema di una tradizione conservatrice, di un codice dispotico che ci impone di fare le cose in un certo specifico modo, Nosferatu è l’alternativa ribelle, il vampiro-punk che trionfa sulla rigidità del canone proprio perché libero, creativo, aperto alla sperimentazione. Tutto bellissimo, finché la realtà non ci viene a chiedere il conto. Scomodare Sartre ricordando che la libertà può diventare, almeno dal punto di vista etico, una condanna ben più amara della schiavitù non serve. Basta ricordare l’iniziale freddezza del pubblico nei confronti del Nosferatu di Herzog, che già a fine anni Settanta gridava alla tentata profanazione. O il clima di sospetto che ha circondato (e in parte lo fa tuttora) l’uscita della versione di Eggers, etichettato da alcuni come un frigido manierista, da altri come un irresponsabile tombarolo.
Jacques Lacan diceva bene, alla fine, quando bacchettava i sessantottini ammonendoli che gli effetti delle rivoluzioni fini a se stesse, di veramente “nuovo”, hanno solo il padrone. E dunque eccoci qui, con l’icona Nosferatu che non rappresenta più l’alternativa creativa al truce Dracula, ma una diversa forma del discorso del padrone. Eccoci di fronte al nuovo e impegnativo paradosso in cui un doppio ha più costrizioni e più vincoli del suo modello di origine. E che per questo rischia di ridursi a esibizione cattedratica, forse giovane in termini anagrafici, ma sicuramente decrepita in termini artistici. Tutto questo preambolo sulla difficile vita degli impostori è per parlarvi dell’ultimo lavoro di Roberto Recchioni, che si chiama proprio Shin Nosferatu.
Recchioni non ha bisogno di presentazioni. È un diamante del fumetto italiano. Uno di quegli autori che onora il medium di cui si serve, e che come il Max Renn di Videodrome ne fa una nuova carne, un’appendice di se stesso per scrivere, esprimersi, raccontare, ma prima ancora, immagino, respirare. Wikipedia vi dirà che è un fumettista. Io, che invece sono di parte, vi dico che è una firma. Tradotto: un artista che andrebbe seguito a prescindere, che leggere i fumetti vi piaccia oppure no. Da qui la domanda delle domande: che ne fa di Nosferatu Roberto Recchioni, specie in un momento in cui l’alter ego di Dracula è balzato di nuovo sulla cresta dell’onda? Andiamoci piano e partiamo dalla trama.
Il notaio Knock riceve una lettera che, nemmeno il tempo di aprirla, lo manda in trance: il conte Orlok, il suo cliente di primissima classe, cerca casa, anzi no, il conte Orlok vuole una casa. Senza troppi giri di parole (bastano una cartina geografica e un nome, “Transilvania”) mobilita subito il suo assistente, il povero Thomas Hutter, che deve fare i bagagli e andare a sbrigare la faccenda direttamente al castello del conte. La Transilvania non è Roccaraso, si sa, però per Thomas chiudere l’affare è un’occasione propizia per sistemarsi con la sua Ellen, la fatica in più per rendere il denaro altrettanto eterno dell’amore. Qui però cominciano subito i guai. Il primo imprevisto è che Thomas dal castello non ne esce vivo, ma impalato. A lasciare la Transilvania è invece il conte, che trascinandosi dietro la bara come il Django di Franco Nero arriva oltremare e, incassati gli onori di casa dal notaio, omaggia quest’ultimo del dono più autentico che si possa offrire ai propri adoranti: una morte terribile.
Con questo primo sacrificio ha inizio l’escalation. Vediamo un conte metà fantasma e metà vampiro irrompere nelle abitazioni altrui e drenare sangue come un’aspirapolvere. La sua non è però una sete dettata dal puro istinto. Né predatore né assassino seriale, Orlok sta scaldando i motori, sta raccogliendo le forze per gettarsi sulla sua vittima prediletta: Ellen. Ellen che, dal canto suo non è ignara, sa già tutto: sa che il momento incombe, che la sepoltura del suo sposo sarà seguita dal rendez-vous col vampiro. E quando l’incontro tra i due ha luogo (non entro troppo nei dettagli per ora), beh, diciamo che è lei a uscirne “a testa alta”, regalandoci un finale sul significato dell’“orribile” libertà del femminile che va oltre ogni banale previsione.
Che Recchioni rispetti profondamente i Nosferatu che lo precedono è chiaro. Ma rispettare non significa copiare, né tanto meno creare scompiglio nel codice. Avere rispetto di un’opera vuol dire scommettere sulla possibilità di accostare la propria firma a quella degli altri, lasciar parlare l’opera e non il suo nome. E in questo Recchioni è un abile ventriloquo, perché l’integrità del suo Nosferatu sta proprio nella miriade di tessere e piccoli dettagli che lo compongono, in una riproposizione a gettito costante ma ponderato della variazione nella continuità, dell’imprevisto nella regola, in quel leggero ma cruciale scostamento che Lacan chiamava la «piccola differenza», che tanto piccola non è mai. È con questa perizia di ritocchi che, leggendo il suo Shin (termine che in giapponese sta sia per “nuovo” che per “autentico”), l’immagine del conte Orlok che ne viene fuori non è l’alter ego di Dracula, ma di se stesso: un Nosferatu che ci convince proprio perché più forte del suo stereotipo di vampiro-bis, un Tamzarian che sa essere Skinner più di Skinner stesso.
Non sorprende, di conseguenza, che questa graphic novel sia un pantheon dell’orrore, con omaggi diretti e non che spaziano da Stoker a Murnau, da King a Miller, da Herzog a Eggers, fino alla tavola in cui Orlok avvinghia finalmente a sé il corpo di Ellen, concepita come un ossequio vampiresco al Bacio di Gustav Klimt. I fan di Kohta Hirano non potranno non cogliere la presenza incombente di Hellsing, dapprima proposta quasi di soppiatto, attraverso l’invadenza dei grimorii, delle crittografie pungenti e dei bianchi isolati ma assoluti delle lenti e delle croci; poi, nel tripudio di sangue de La peste, capitolo in cui il pallore espressionista che aveva guidato fino a quel momento il racconto precipita nella viscosità invadente dei rossi e dei neri. In cui i due opposti radicali del codice vampiresco, il glam e il carnaio, la melanconia e l’istinto bestiale, trovano il loro (altrimenti difficile) punto di sintesi in una raffinata ma non meno brutale grammatica del colore.
Le sfuriate del conte, che non morde ma strappa, taglia e fotte, celebrano la crudeltà del miglior Berserk. I primi piani che Recchioni ci offre mostrandoci un Orlok concentrato, che persevera nella vocazione di raggiungere Ellen, sono gli stessi che il miglior Miura dedica al Gatsu macellaio eppure consapevole, che apprezza le virtù della violenza, se la violenza è sinonimo di fedeltà al proprio desiderio. Ma Orlok non è Gatsu, o almeno non fino in fondo. La sua innata depravazione, che raggiunge un picco in cui il genere horror torna a essere davvero disturbante, è una versione moderna delle “peggiori” tavole di Devilman, quelle in cui i demoni non si limitano a maledire le vittime, ma le profanano, le violentano e – appunto – le impalano.
Un discorso simile vale probabilmente per il rimando filosofico a Hideaki Anno, la mente di Neon Genesis Evangelion che Recchioni chiama implicitamente in causa per sferrare al vampiro la più umana delle critiche: la sua incapacità di mostrarsi impotente, di guarire il senso di solitudine non con la prevaricazione, quanto piuttosto con la condivisione di quella che Freud chiamava la nostra infelicità comune, un destino amaro che ci attende ma non ci giustifica.
Una nota sul finale, già che siamo in tema. Nelle ultime scene, Ellen e il conte stanno per lasciarsi andare a un sanguinolento amplesso. Lei sembra concedersi, non fosse che, povero lui, il conte osa pronunciarle a filo di labbra due parole indecenti, quel “per sempre” che di norma scappa fuori dalla bocca degli esseri umani, non dei mostri. L’errore madornale di Orlok è di credere a un’utopia che la tradizione horror cerca da sempre di far vacillare: l’idea che il mostro, solo perché mostro, possa godere di noi e contro di noi. Ed è esattamente a questo punto che Ellen dice no, che la sua furia surclassa quella del vampiro, che il femminile diviene libero perché orribile. Del resto, il modo migliore per sbarazzarsi di un mostro non è ucciderlo, ma disonorarlo, farlo sentire altrettanto ottuso e impotente dei comuni mortali a cui dà la caccia.
Non per nulla, la psicoanalisi ci insegna che il vampiro non brama il sangue perché affamato. Egli lo reclama come parte di sé, come oggetto separato, perduto, e di cui ha bisogno per sanare la propria insufficienza. Il gesto di Ellen di negarsi sul più bello, di concedere il corpo ma non la propria essenza simbolica, è il peggior oltraggio che un mostro possa concepire. Cos’è qui il maledetto “per sempre” se non un altro nome del godimento? E difatti, il massimo sgarro che può rifilare al conte è di apparire davanti ai suoi occhi come nient’altro che una «puttana» (Recchioni 2024, p. 141), come la negazione assoluta delle sue fantasie: un corpo prosciugato, una sacca vuota, ennesima prova di come la soddisfazione perpetua sia irraggiungibile, finzione dei grandi deliri o architettura di una scadente propaganda politica.
La testa impalata della ragazza, che nelle tre tavole di chiusura ci parla ancora come il corpo mozzato di Akira Fudo in Devilman, inquadra questa logica alla perfezione: è proprio perché mi pretendevi come una semplice anima gemella, oggetto delle tue squallide fantasie, che io ho scelto di diventare ciò che sono ora, un oggetto da buttare, uno scarto che parla. E che infatti sorride.
RRobe, Shin Nosferatu, Edizioni BD, Milano 2024.