Si dichiarava un filosofo d’occasione, in quanto considerava l’esercizio della filosofia utile solo se rivolto all’analisi della contingenza politica e sociale della cronaca dei suoi tempi, una sorta di metafisica applicata al giornalismo, ma in realtà Günther Anders, come tutti i grandi filosofi, ha avuto un solo grande tema che ha polarizzato tutta la sua riflessione perlomeno a partire dal 1945: la catastrofe nucleare come orizzonte insuperabile del nostro tempo.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1992, con la fine della guerra fredda e la prospettiva apparentemente concreta di una distensione all’insegna di una globalizzazione economica che si presentava senza striature, lo sguardo apocalittico di Anders sembrò relegato ad una perentoria inattualità. Ma ben presto, esplosione del terrorismo integralista, crisi climatica e ritorno della guerra come regolazione dei rapporti tra potenze che faticano a trovare un nuovo ordine internazionale hanno contribuito a risvegliare l’interesse per questo filosofo che, estraneo per sua scelta all’accademia, appartiene a quella nutrita schiera di filosofi ebrei-tedeschi (Hans Jonas, l’ex consorte Hannah Arendt, Leo Strauss e Karl Löwith) che, formatisi sotto il magistero filosofico di Heidegger, seppero poi riversare lo sguardo decostruttivo dell’autore di Essere e Tempo nell’analisi critica delle più importanti patologie della modernità che hanno caratterizzato la storia del Novecento.

È pertanto occasione di vivo interesse la decisione della casa editrice Mimesis di ripubblicare il primo libro di Anders tradotto in italiano da Renato Solmi per Einaudi nel 1961, il diario che aveva scritto in occasione del viaggio nell’estate del 1958 nei luoghi della catastrofe nucleare causata dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki, su invito del IV Congresso internazionale contro le armi atomiche e nucleari e per il disarmo. Pubblicato col titolo Essere o non essere, con un’importante prefazione di Norberto Bobbio, il testo viene riproposto adesso nella collana “Andersiana” col titolo originale L’uomo sul ponte, con una densa introduzione di Micaela Latini, una delle più acute studiose italiane del pensiero andersiano (ma mantenendo anche la Prefazione della precedente edizione).

Perché la voce di Anders, così ostinatamente fermo ad un principio di disperazione che informa tutta la sua visione e non gli permette di distogliere lo sguardo dalla catastrofe come se ne fosse stato pietrificato, non smette di risuonare potentemente ancora oggi? Al di là del fascino che il tono apocalittico conferisce, di per sé, al discorso filosofico, si può ritenere che sia proprio, invece, il contributo euristico delle sue analisi sulla potenza tecnico-operativa della nostra società a fare del suo pensiero un punto di vista critico imprescindibile sulla nostra attualità, anche solo come salutare smarcamento dalle tradizionali e più scontate visioni ancorate al realismo politico. 

Il filo conduttore di tutta la riflessione andersiana è sicuramente l’antropologia filosofica negativa che Anders delinea negli anni ’20, sulla scia dell’analitica esistenziale heideggeriana e degli studi di Scheler e di Plessner: l’essere umano è l’unico essere vivente la cui natura è quella di non avere una natura predefinita e tale indeterminatezza lo porta a impostare il rapporto con l’ambiente attraverso la mediazione tecnica, che però si configura come un apparato sempre più potente che lo estranea dal mondo, che l’uomo fa sempre più fatica a riconoscere come casa propria. È il rischio dell’uomo senza mondo che Anders approfondisce soprattutto attraverso l’analisi di alcuni grandi scrittori del Novecento, Döblin, Rilke, Kafka. Tutto cambia con lo sgancio delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, con l’irruzione nella storia della potenza distruttiva del nucleare, che rende irrilevante il potere di alienazione della tecnica rispetto alla minaccia incombente di un mondo senza uomini, della distruzione della vita sul pianeta.

Dopo Hiroshima, dirà Anders, non ci sarà più spazio per le aspettative rivoluzionarie di trasformazione del mondo, ingabbiato ormai nella minaccia del non più. Concettualmente, il punto di svolta è per Anders il passaggio dall’homo faber, simbolo del fare prometeico della modernità, all’homo creator, capace di spingere la potenza tecnico-creativa fin dentro i processi della natura e della vita e di introdurre sulla scena prodotti del tutto “nuovi” (basti pensare al plutonio, alla bomba nucleare, alle manipolazioni genetiche), alterando profondamente le leggi stesse dell’evoluzione e aprendo orizzonti del tutto imprevedibili. Il problema non è la commistione di natura e artificio, l’estraneazione prodotta dalla tecnica, perché è proprio della natura umana di essere caratterizzata da un’indeterminazione costitutiva che la spinge a ricreare continuamente il proprio equilibrio con l’ambiente naturale. Ma quando l’equilibrio tra ciò che è dato e la capacità trasformativa degli uomini si spezza, irrompe sulla scena della storia una capacità distruttiva che segna il rovesciamento del progetto moderno di mettere la natura sotto il dominio della tecnica.

È questa la verità sconvolgente di Hiroshima, la possibilità concreta della nullificazione del mondo, che però la nostra coscienza non riesce nemmeno a immaginare, perché per Anders esiste un dislivello fondamentale tra la nostra prestazione prometeica e la nostra capacità di comprendere, tra produrre (herstellen) e immaginare (vorstellen), scarto che si traduce in un desiderio generalizzato di rimozione. Proprio perché il discorso sulla bomba tende alla banalizzazione o alla rimozione, diventa quindi impellente il ricorso alla esagerazione come scuotimento dell’ottundimento della coscienza. Essendo l’invenzione nucleare l’esito più angosciante della tecnicizzazione del reale, occorre far di tutto per farne saltare gli automatismi che porterebbero inevitabilmente al suo utilizzo.

Puntare ossessivamente l’attenzione sulla ineluttabilità della catastrofe era un modo per Anders di svegliare le coscienze, riattivando quelle risorse etiche e politiche necessarie per contrastare l’anestetizzazione morale della società contemporanea. È quello che il filosofo francese Jean-Pierre Dupuy ha chiamato il catastrofismo illuminato, il ricorso all’esagerazione come scuotimento all’ottundimento della coscienza. Ma altrettanto insidioso, per Anders, è anche il tentativo di anteporre alla minaccia nucleare la scelta valoriale della libertà come superiore alla possibilità della distruzione, che è la posizione sostenuta da Karl Jaspers, che compare nel libro raffigurato nel personaggio dello “psichiatra danese”, con cui l’autore immagina di ingaggiare un dialogo serrato. Più in generale, però, in Anders è la dimensione politica che risulta antiquata e del tutto inadeguata ad affrontare la questione della Bomba: le stesse categorie di possibilità e di libero arbitrio sono categorie astratte e inadeguate a condizionare i meccanismi decisionali che sovrintendono le logiche militari. Rispetto al pacifismo istituzionale di Norberto Bobbio o alla possibilità di ragionare in termini di deterrenza, come avrebbe fatto Raymond Aron, Günther Anders non si fa illusioni, proprio perché l’agire politico è ormai, secondo lui, neutralizzato dall’impersonalità dei meccanismi decisionali degli apparati tecnici e militari che tengono le leve del potere: come dice lo stesso Anders nell’introduzione al suo diario:

È falso credere che nel quadro dell’attuale situazione politica mondiale ci siano, tra l’altro, anche armi atomiche; che esse rappresentino mezzi utilizzabili, sul piano strategico o tattico, per ottenere questo o quello scopo politico. Bisogna dire, invece, che poiché il nostro mondo è posto dal fatto delle armi atomiche davanti al suo to be or not to be, la situazione mondiale è definita dal fatto atomico. Insomma: la politica si svolge nel quadro della situazione atomica (Anders 2024, p. 33). 

Solo una nuova etica adeguata all’età atomica, secondo Anders, può costituire un freno e, come afferma nelle Tesi sull’età atomica pubblicate in aggiunta al diario, proprio perché “Hiroshima è dappertutto”, solo un’etica che si sottragga ad ogni forma di collaborazione con i poteri costituiti e che dia vita a forme di vera e propria disobbedienza civile può permettere di ritardare la catastrofe. Però, quando dopo la catastrofe di Cernobyl, nel 1987 Anders tornerà a riflettere su come fare fronte alla minaccia nucleare, la conclusione in quel caso andrà ancora oltre e arriverà a proporre vere e proprie forme di terrorismo politico come unica opposizione possibile alla catastrofe nucleare, a suggello di come l’assolutizzazione della minaccia nucleare si rovescia in Anders nell’impotenza politica a fronteggiarla con strumenti razionali.

Günther Anders, L’uomo sul ponte. Diario di Hiroshima e Nagasaki e Tesi sull’età atomica, Prefazione di N. Bobbio e Introduzione di M. Latini, Mimesis, Milano-Udine 2024.

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