Tra gli anniversari recenti del cinema italiano – quello della nascita di Sergio Leone o di Marco Ferreri – ha avuto una certa risonanza la celebrazione dei novant’anni del regista Elio Petri, nato a Roma nel gennaio 1929 e purtroppo scomparso troppo presto, nel novembre 1982. Al di là della ricorrenza, e al di fuori di logiche meramente celebrative, l’occasione dell’anniversario può diventare strumento per tornare a ragionare, in prospettiva e a distanza, sul ruolo di un regista come Petri nel contesto della sua epoca, e più in generale nella cultura cinematografica italiana, e sugli echi del suo lavoro e della sua carriera.

L’opera di Elio Petri – fin dai primi cortometraggi, i documentari, l’attività inaugurale nel PCI e nei lungometraggi dall’inizio degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 – risulta particolarmente indicativa per riflettere su un’epoca connotata del sistema cinematografico italiano, anche se a ben vedere essa è stata ed è tuttora talmente evocativa e d’impatto da essere in grado di porsi come stimolo anche al di fuori della propria epoca. L’opera di Petri, se riletta nella sua interezza e complessità, risulta testimonianza indelebile della stagione del cosiddetto cinema politico nel nostro Paese, ma è anche conferma di un’incessante sperimentazione e curiosità verso modalità differenti di racconto e di messa in scena.

Anche per questo il cinema petriano ha sovente innescato dibattiti e prodotto discorsi in seno alla società e alla cultura cinematografica (e cinefila) dell’epoca, non soltanto intorno a film “politici” come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto o Todo modo, ma anche rispetto a pellicole come La decima vittima e A ciascuno il suo. Una concezione peculiare del cinema e dell’industria cinematografica, quella di Petri, capace di tenere insieme obiettivi ed aspetti molto diversi tra loro, dall’urgenza delle istanze civili a un’inedita forma di spettacolarizzazione ed entertainment, dalle eredità del neorealismo agli incroci con il popolare, da ardite scelte di casting al peculiare lavoro su specifici corpi attoriali, fino ad arrivare a vere e proprie innovazioni di carattere industriale e produttivo: basti pensare alla sola figura di Giuseppe Zaccariello, di professione piastrellista, chiamato nel ruolo di produttore per A ciascuno il suo, ruolo che aprirà una carriera di tutto rispetto nel contesto produttivo del cinema italiano.

In molte occasioni la critica, soprattutto militante, ha accolto e discusso negativamente i film di Petri, soprattutto quelli già citati della sua fase più politicizzata, anche se gli stessi A ciascuno il suo o La decima vittima sono stati attaccati violentemente per il loro eclettismo formale e per la commistione di pratiche autoriali e logiche di genere, fraintendendone di conseguenza gli obiettivi e le specificità. Anche per questi motivi Petri ha subìto alcune esperienze di isolamento lavorativo, di ostilità e incomprensioni culminati nei casi de La proprietà non è più un furto e Todo modo, accolti in modo feroce (il secondo anche per le evidenti connessioni con un quadro culturale di per sé complesso, e con il caso Moro) e per anni scomparsi dai circuiti di visione e diffusione. Questi sono alcuni degli elementi che hanno concorso a diffondere l’immagine di Petri come regista oscurato e dimenticato, inviso alla critica e a parte del pubblico.

A ben guardare, però, nel caso di un regista come Petri è sempre bene non affrettarsi a dare giudizi, così come a incasellare con facilità le opere, che nel corso del tempo sono state in grado di rivelare nuove particolarità e sempre più livelli di lettura. Pur fatte salve, dunque, le premesse sui fraintendimenti, gli oscuramenti e le polemiche intorno ai film petriani, oggi è utile muoversi in un panorama rinnovato, a partire dalla necessità di guardare criticamente all’isolamento occorso al lavoro di Petri, analizzandone motivazioni e conseguenze per collocarli in un orizzonte storiografico e interpretativo più pertinente.

Sembra necessario, come molte ricerche negli ultimi anni hanno cercato di dimostrare, problematizzare l’accoglienza negativa riservata ai film, o la successiva interdizione, evidenziandone gli effetti nella storia della critica, nella storia della ricezione del cinema politico, nello studio delle contaminazioni tra pratiche “alte” e “basse”, e in definitiva nella storiografia del cinema italiano. In altre parole, per ristudiare e riscoprire oggi il cinema di Elio Petri non serve la premessa legittimante del suo oscuramento, ma casomai esso deve divenire un tassello nell’apertura di nuove prospettive di ricerca sull’opera e sui discorsi ad essa legati.

Questo orizzonte è confermato da una riacquisita e costante attenzione riservata al regista, che prosegue diversificando iniziative e ambiti di interesse. Anzitutto restauri delle sue opere, da L’assassino a La proprietà non è più un furto, vincitore della sezione “Venezia Classici” alla settantesima Mostra di Venezia, restauri che al di là delle questioni filologiche hanno permesso ad un ampio pubblico di (ri)vedere, in un contesto di re-legittimazione, i film di Petri. In secondo luogo si sono organizzati diversi omaggi e retrospettive in Italia e all’estero, dalla personale al MoMA nel 2002 a quella berlinese del 2013, fino all’omaggio organizzato nel 2015 alla Filmoteca Española di Madrid, circostanze necessarie per rimettere in circolazione l’opera del regista romano a beneficio di un pubblico più diversificato e internazionale.

Al contempo si sono differenziate le occasioni per ristudiare la sua opera, come si diceva, a partire da pubblicazioni, studi e ricerche su singoli film o su aspetti specifici del suo cinema, per rileggerne la complessità o riconsiderarne elementi trascurati, in questo caso riletti attraverso nuove prospettive d’indagine. In questo frangente è di un certo interesse ricordare che da più di dieci anni è accessibile un ricco fondo archivistico, donato dalla moglie Paola Pegoraro Petri all’Archivio del Museo Nazionale del Cinema di Torino, che raccoglie diverso materiale appartenuto al regista, indispensabile oggi per riaffrontare aspetti del suo lavoro affiancando all’analisi dei suoi film e del contesto di riferimento una lettura attenta di documenti, sceneggiature, materiali di corrispondenza, appunti inediti.

E non sono altresì da dimenticare occasioni di riaggiornamento e ripresa della sua opera in chiave contemporanea, attraverso piccole retrospettive e momenti di dibattito, oltre a spettacoli musicali e teatrali tratti dai suoi film o ispirati ad essi, come ad esempio lo spettacolo La classe operaia va in paradiso scritto da Paolo Di Paolo e portato in scena da Claudio Longhi, segni evidenti di una disseminazione degli interessi verso il regista e l’eredità del suo stile.

Al di là delle celebrazioni per l’anniversario, si può dunque dire che Petri sia al centro di una fruttuosa attività di riscoperta e considerazione, che attraverso l’opera del regista e i suoi film ci s’interroga sul passato, rinnovando ricerche sul cinema italiano e di conseguenza sul più ampio contesto socio-culturale dagli anni ’50 agli anni ’70 del secolo scorso.

Riferimenti bibliografici
C. Bisoni, Gli anni affollati. La cultura cinematografica italiana (1970-1979), Carocci, Roma 2009.
C. Bisoni, Elio Petri. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Lindau, Torino 2011.
L. Cardone, Elio Petri, impolitico. La decima vittima (1965), ETS, Pisa 2005.
P. Pegoraro Petri, a cura di, Lucidità inquieta. Il cinema di Elio Petri, Museo Nazionale del Cinema, Torino 2007.
G. Rigola, a cura di, Elio Petri, uomo di cinema. Impegno, spettacolo, industria culturale, Bonanno, Acireale-Roma 2015.
A. Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano: la piazza carnevalizzata, Mimesis, Milano-Udine 2015.

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