Il rischio che un curatore di un evento espositivo come la Biennale di Venezia deve forse rifuggire per primo è quello della sindrome da contenitore, cioè il fatto di confinare le opere in una gabbia di significato troppo stringente. La sua mano, pur visibile, dovrebbe infatti tracciare non un perimetro stagno ma piuttosto una nebulosa di senso sulla cui mutevole forma possano gravitare le forze dell’arte. D’altro canto, l’esigenza di mediatizzazione che l’esercizio impone richiede tuttavia di veicolare tendenze nette, parole chiave, formule riproducibili. Adriano Pedrosa, il curatore della sessantesima edizione della Biennale, animato dalle più fervide intenzioni, è probabilmente rimasto impantanato in questo guado. 

Il comunicato stampa è un sintomo di questo perimetro un po’ irrigidito che si staglia sotto il titolo di Stranieri Ovunque. Dalla sua lettura si evince che “straniero”, “queer” e “unheimlich” sono le tre aree concettuali date come riferimento per la totalità della mostra. Sono termini che condividono una certa parentela tra di loro, stretta intorno all’elemento che per strade diverse scardina dal di fuori quell’heim, heimisch (“casa”, “patrio”, “nativo”, se preso nel significato primo) che, preceduto dal negativo un, è al centro dell’ultima parola, richiamata nella sua accezione freudiana. Da questi termini sembrano discendere due etichette precise, delle quali il comunicato stesso sottolinea la centralità lungo tutta la mostra: l'”artista indigeno” e l'”artista queer”. I termini concettuali sono dunque incarnati in delle forme di vita artistica, biografie che costituiscono esse stesse un termine a quo attraverso il quale percepire le opere, essenziale legame per la scaturigine di una certa atmosfera biopolitica che pensa e contrasta il potere al di là delle sue configurazioni egemoniche più riconoscibili.

Questo schema teorico, ribadito a più riprese nelle forme di mediazione dell’esposizione, sia nella sede dell’Arsenale che in quella dei Giardini, se risulta essere una rete coerente per la lettura globale della mostra, allo stesso tempo diventa una forma di dressage, di addomesticamento, e infine di neutralizzazione della forza potenziale di alcune opere di cui si può fare esperienza nel lungo percorso espositivo. La rivendicazione della natura politicamente subalterna degli artisti (singoli e collettivi) attraverso categorie essenzializzanti rischia cioè di rendere le opere meno pungenti, meno fastidiose, in fondo meno “perturbanti” (la traduzione generalmente accettata per unheimlich).

Sta allo spettatore, a questo punto, ricominciare a vedere la mostra una seconda volta al di fuori di questo apparato frutto di un curatore generosamente intricato nel guado. E intravedere, qui e là, delle epifanie, che pur ricongiungendosi al generale chiasmo tra familiare e sconosciuto, lo riattivano secondo modelli più imprevedibili. Allora si nota come alcune opere, pur talvolta straordinarie, sono perfettamente coerenti e svolgono il compito da prime della classe, di fatto autoannullandosi, e altre, di impatto forse minore, restano sulla soglia, esitanti tra un silenzio e una deflagrazione, aumentando il voltaggio del loro portato artistico e epistemologico.

Per farvi un esempio, tutto il magnifico padiglione spagnolo (benché i padiglioni nazionali risentano solo indirettamente dell’influsso del curatore), con l’opera della mano virtuosa della peruviana Sandra Gamarra Heshiki, che riprende e ribalta l’immaginario coloniale in tutti i suoi interstizi figurativi, archivistici e museografici, rientra nella prima scelta. Santiago Yahuarcani, con i suoi dipinti sulle tele fatte di yanchama (un tessuto tratto dalla corteccia) che richiamano la forza dei giudizi universali medievali attraverso una mitologia amazzone e una denuncia del criminale sfruttamento dell’industria del caucciù, sembra invece appartenere alla seconda dimensione. Non si tratta di una dicotomia sempre applicabile, e tantomeno di un diretto giudizio di valore sulle opere, ma è un buona maniera per un approccio spettatoriale che abbia come scopo quello di rivitalizzare la Biennale dall’impasse in cui sembra vivere in questa edizione. 

Un’impasse dovuta forse ad alcune tendenze culturali più ampie che stanno mostrando un certo affanno, una sorta di esaurimento. L’accoppiata trauma/archivio, ad esempio, quella che lavora in più campi intellettuali e scientifici una revisione delle temporalità della storia e che fa affiorare nuove narrazioni delle minoranze oppresse, se è ancora molto feconda in molti ambiti disciplinari, forse ha esaurito la sua spinta nelle forme dell’arte contemporanea dopo averle nutrite almeno fin dagli anni novanta. Non a caso il padiglione premiato, quello australiano, ospita un’opera – Kith and Kin di Archie Moore – che attraverso l’archivio (in questo caso quello dei rapporti legali sulla morte di centinaia di aborigeni in custodia poliziesca negli ultimi decenni) ritesse la temporalità del rapporto fra aborigeni e colonizzatori. Un premio per riattestare l’efficacia della formula archiviale – che nell’installazione di Moore prende delle dimensioni monumentali – ma forse anche per decretarne inconsapevolmente il suo ormai corto respiro ad agire sul contemporaneo.

L’attribuzione del Leone d’argento, per quanto riguarda gli artisti partecipanti all’esposizione, sembra invece scorgere qualcosa di più potente, una di quelle opere che, come le tele di Yahurcani, pare eccedere la cornice inintenzionalmente (e direi paradossalmente) normativa della mostra. Si tratta del video Machine Boys, formalmente molto interessante, di Karimah Ashadu, nigeriana, che ci parla degli okada, i mototaxi di Lagos, e dei loro conduttori, oggi messi fuorilegge da un decreto che ne sancisce la pericolosità dopo aver constatato i numerosissimi incidenti. L’occhio di Ashadu entra nello stile suburbano che è proprio di questi motociclisti, fatto di un montaggio fra accessori di lusso globalizzato, moto bricolées e sgangherate, e una sorta di fragile culto della mascolinità.  Le sequenze ossessive delle derapate di gruppo nei terreni sabbiosi sotto i ponti di Lagos, riprese dal punto di vista della ruota come in un film sperimentale, si alternano a campi medi e più ravvicinati che scrutano questi anti-eroi della mitologia contemporanea nigeriana.

Se invece pensiamo al Leone d’oro ottenuto dal gruppo maori Mataaho Collective, premiato per la loro architettura effimera composta di tiranti sovrapposti che richiamano la logica delle stuoie tradizionali (takapau, come il titolo dell’opera), siamo forse di fronte al protagonista indiscusso di questa Biennale: l’intreccio tra l’ordito e la trama alla base dell’arte tessile. Il tessuto, infatti, nei diversi materiali e tecniche che concerne e nelle sue varie forme, sia superficie decorativa, brandello da feticcio o monumentale opera narrativa, semplice trapunto o minuzioso ricamo, si delinea come un dispositivo che fa ripensare sinesteticamente il ritmo della figurazione e dell’installazione.

Non è secondario, inoltre, il fatto che come per Mataaho Collective anche per il collettivo Bordadoras de Isla Negra, di cui viene riproposto l’enorme ricamo scomparso dopo il colpo di stato cileno del 1973 e ritrovato solo recentemente, si tratta di un gruppo di sole donne, che si fa depositario di una tecnica tradizionale per poi iniettarle nuova linfa artistica. Un po’ come quello che facevano, forse meno consapevolmente, le donne che nell’XI secolo si occupavano di creare quella stupenda opera d’arte tessile che è il cosiddetto arazzo di Bayeux, persone delle quali ad oggi non siamo riusciti a ricostruire i nomi, ma che dovrebbero essere celebrate come riferimento della storia dell’arte. 

Una riappropriazione queer del mondo passa allora anche per le minoranze eteronormate, nel presente come nel passato, per dare ancora più forza critica all’autodeterminazione del genere nelle sue forme più libere e disparate, lontane da quell’ordine fallico di cui ci scriveva meticolosamente Baudrillard e che è sempre in agguato anche dove si vorrebbe escluderlo a priori. Il tessuto, infine, ricordandoci che può essere appeso ma anche steso, si apparenta al regime scopico della carta geografica, altro elemento ricorrente dell’esposizione, riadattata, decostruita, rovesciata per strapparla alla sua natura di involucro del capitalismo globale, e della narrazione nazionalista e razzista.

Attentamente ripercorsa e ripercepita, allora questa enorme proliferazione di oggetti artistici sembra meno docile dell’intenzione che la preparava, attraverso alcune punte di emergenza che restano indisciplinate alla sindrome da contenitore, dalla quale deve guardarsi, a questo punto, sia il curatore che lo spettatore.

Biennale Arte 2024, a cura di Adriano Pedrosa; Venezia, 20 aprile 2024 – 24 novembre 2024.

Share