Una chiave d’accesso alla sua ultima raccolta di saggi, gravitante attorno ai due poli di Machiavelli e di Pascal, Ginzburg la dà nella Noterella su Il gattopardo che chiude l’opera: «Leggere Il gattopardo (e qualunque altro libro) tra le righe non solo si può, ma si deve: magari per cogliere allusioni non dichiarate, rivolte agli happy few cui Stendhal, amatissimo da Lampedusa, aveva dedicato La Certosa di Parma. La decifrazione di queste allusioni, letterarie o meno, fa parte del mestiere del critico da tempi remotissimi, quanto il termine “intertestualità” era di là da venire».
E in primo luogo, questo vuole essere Nondimanco: una mappa di sottintesi, di ironie criptate, di furti letterari, di censure e di polemiche furiose. Un esercizio di lettura, che ci permette di ritrovare nel freddo dialogo fra Timoteo e Lucrezia ne La mandragola la lezione sull’usura delle Quaestiones mercuriales (1472) del professore di diritto canonico Giovanni d’Andrea, e con essa la tradizione della casistica di origine medievale, o di cogliere le analogie nella Roma controriformistica delle discussioni su Machiavelli e su Galileo, a causa della mediazione dell’interlocutore padre Riccardi, consultore dell’Indice dei libri proibiti, che sosteneva la distinzione aristotelico-tomistica tra simpliciter e secundum quid che si prestava a fini anche spregiudicati dal punto di vista teologico, come la rivalutazione di Machiavelli e la lettura in chiave ipotetica della teoria copernicana.
E ancora, il corpo a corpo di Pascal con Il Principe di Machiavelli e il suo concetto di virtù come sinonimo di potenza, di dunamis, che arriva fino a Spinoza; un corpo a corpo in cui la contrapposizione tra giustizia e forza, che risaliva al De Officiis di Cicerone, è rielaborata, tenendo conto di una distinzione di stampo galileiana tra «dottrine dimostrative e opinabili»: la giustizia è opinabile, la forza non lo è.
E allora, tornando di nuovo a Il gattopardo, emerge come la visione della storia di Lampedusa sia figlia di un aforisma pascaliano, «le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie», che spazza via facili identificazioni tra il cosiddetto “gattopardismo” e il significato del romanzo di Tomasi di Lampedusa; potremmo aggiungere che quell’aforisma sembra permeare la scena finale del film di Visconti, il quale proprio nell’elaborazione della parte finale del romanzo si è allontanato in modo evidente da esso, cancellando addirittura i due capitoli conclusivi, per poi recuperarne, però in parte, il senso in quella passeggiata notturna del principe di Salina.
Di converso, Ginzburg ci permette di riconoscere le origini di quel «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», spesso interpretato come motto del romanzo, in un passo (rovesciato) de I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (I, XXV). Sarebbe da aggiungere a questa Noterella il lavoro di riscrittura compiuto da Visconti che, muovendo dalle critiche all’anti-storicismo che la critica marxista aveva mosso al romanzo di Lampedusa, riprende da quella tradizione critica l’idea che il male che dalla nascita ha corrotto il corpo della nazione è stato proprio il trasformismo sostenuto da quel motto; ma al contempo, rimarcando come quella fosse la posizione del nipote Tancredi e distinguendola in modo marcato, durante la sequenza del ballo, da quella del principe, Visconti, anche se ha modificato profondamente molti equilibri narrativi del romanzo, ha paradossalmente reso giustizia alle posizioni di Tomasi di Lampedusa, che erano state da tanti sbrigativamente identificate con una visione immobile della storia.
Riappaiono nelle pagine di Ginzburg le intricate letture che, da una parte permettono di risalire al contesto aristotelico-tomistico di cui Machiavelli dall’interno rivoluziona le categorie dell’agire politico, dall’altra conducono da Machiavelli verso quelle strategie politiche basate sull’adattamento al contesto, riprendendo un’idea di religione civile che possiamo ritrovare sia nella diffusione del cristianesimo in Asia, con le missioni dei gesuiti che sostituivano l’immagine del Cristo sofferente con quella di una divinità bella, magnifica, vestita con abiti cinesi e scesa dal cielo, sia nei percorsi con i quali il potere secolare si è impadronito degli strumenti venerabili della religione e li ha corrosi dall’interno. All’abituale attenzione verso l’audacia intellettuale di Machiavelli, Ginzburg associa, riprendendo alcune riflessioni di Leo Strauss, quella sulla sua cautela. Il rischio della persecuzione ha spinto Machiavelli, come ogni altro scrittore eterodosso, a scrivere tra le righe: quella è la sua forza immateriale; renderla visibile è il compito del critico, se non vuole ridurre il suo esercizio all’irrilevanza.
Un testo è in primo luogo un dispositivo che tiene insieme, negozia, tante letture diverse, anche conflittuali: questo non significa ridurlo a mero gioco post-moderno, a un pastiche, ma permette di capire le strategie con le quali si adatta al proprio contesto, al proprio lettore. E, di converso, è questa la forza immateriale che Machiavelli riconosce implicitamente al cristianesimo, anche se con l’ambiguità di cui stiamo parlando; difatti non si pronunciò mai sulla vittoria del cristianesimo, ma sulla sua capacità di rigenerazione, attraverso figure come san Francesco e san Domenico.
Questi esercizi di lettura si giocano attorno a due tesi fondamentali. La prima: la tensione tra norma ed eccezione politica, tra legge e miracolo accomuna Machiavelli e Pascal e condensa il tema della teologia politica di Schmitt, il tema dello stato d’eccezione, pur se privo di quell’antigiudaismo cattolico che segnava le posizioni del giurista tedesco. Tale tensione trova la sua espressione icastica in quell’avverbio, nondimanco, che ritorna ripetutamente ne Il Principe e permette di passare dalle leggi morali universali all’eccezione non soltanto ammissibile, ma talvolta addirittura «laudabile e gloriosa».
La seconda, ripresa da Charles Singleton: Machiavelli trasferisce nella sfera della politica termini tratti dalla sfera, moralmente ambigua, dell’arte, sovvertendo dall’interno le distinzioni aristoteliche. La politica è arte, e Machiavelli ha dislocato la prima dalla sfera dell’agire (agere) a quella del fare (facere); dall’ambito tradizionalmente aristotelico della prudenza, che coinvolgeva il campo semantico del bene comune riguardante la polis, a quello dell’arte. Se mettiamo in connessione queste due tesi, ci troviamo di fronte all’orizzonte nel quale ha preso corpo l’estetizzazione della politica, fenomeno le cui origini precedono l’universo delle immagini intermediali.
Un punto d’attrito dello scritto di Ginzburg, ossia la reale posizione di Machiavelli rispetto al cristianesimo, fa emergere il problema del rapporto tra la Chiesa stessa e il dispositivo concettuale machiavellico, che si costruisce attraverso la rielaborazione della casistica medievale. Quanto di quell’estetizzazione della politica, che prende le mosse dal trasferimento nel campo estetico delle riflessioni di campo politico, ha a che fare con la liturgia cristiana e con lo statuto katechontico assunto dalla Chiesa, con lo statuto di freno del male che deve contemplare anche l’eccezione rispetto alla propria norma morale in nome del contesto, fino a confondersi con ciò che combatteva? Quell’avverbio, nondimanco, non regola l’agire stesso dei papi?
Riferimenti bibliografici
C. Ginzburg, Nondimanco. Machiavelli, Pascal, Adelphi, Milano 2018.
N. Machiavelli, Il Principe, a cura di M. Martelli, Salerno Editore, Roma 2006.
B. Pascal, Pensieri, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino 2004.
Ch. Singleton, The Perspective of Art, in «The Kenyon Review», XV, 2, 1953, pp. 169-189.
G. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, nuova edizione a cura di G. Lanza Tomasi, Feltrinelli, Milano 2013.