Il nome della rosa è un romanzo per molti versi anticipatore culturale della multimedialità. Con i suoi diversi livelli di lettura, il primo libro di narrativa di Eco intreccia gli orizzonti metanarrativi sfidando il lettore ad individuare gli indizi disseminati lungo il racconto, e sparsi qua e là tra citazioni e strizzatine d’occhio più o meno colte, più o meno esplicite, e disponendosi a traduzione intermediali. Mentre intreccia le sue riflessioni sulla scorta degli interessi filosofico-semiologici dell’autore, Il nome della rosa punta il fuoco sulla pluralità di letture che ogni testo può avere. A partire proprio dal titolo stesso che in un primo momento sarebbe dovuto essere il più prosaico L’abbazia del delitto, poi Adso da Melik, fino ad arrivare a quel Nome della rosa, perfetto rimando diretto alla simbologia del fiore presente in moltissime opere della letteratura medievale ma anche ispirato all’esametro de De Comtemptu Mundi di Bernardo Morliancese — stat Roma pristine nomine, nomina nuda tenemus —, autore del XII secolo, che si rifà espressamente alla transitorietà delle cose. Ma ancora di più, a svelare il carattere multimediale del romanzo, stanno le sue trasposizioni, che da un media ad un altro non fanno altro che esaltare l’originalità stessa dell’intuizione di Eco.
Partiamo dall’adattamento per il cinema che il regista Jean-Jacques Annaud ha diretto nel 1986. E va detto, preliminarmente, che il film funziona bene perché la sceneggiatura, scritta ad otto mani da Birkin, Brach, Franklin e Godard, manipola il testo di base prosciugando quasi per intero quell’impianto teologico, non rappresentabile su grande schermo. La resa finale è però merito non tanto della regia di Annaud (facilmente verificabile, nelle sue prove successive, come si lasci andare a dialoghi fin troppo prolissi e lungaggini eccessivamente didascaliche), che di suo aggiunge uno stile altamente spettacolare; bensì, in primo luogo, nella restituzione iconografica attraverso la fotografia di Tonino Delli Colli, nell’utilizzo alternato di toni freddi e caldi, e nel saper bene restituire l’atmosfera malsana delle mura medievali con quadri ipnotici e una composizione pittorica dell’immagine. E questo senza dimenticare il lavoro dell’attore: Sean Connery è il perno attorno al quale ruota tutto il film, e diventa metatestualmente un punto cardine della (nostra) riflessione.
Si parlava sopra della grandezza del romanzo di Eco. Metatesto fondato sulla stratificazione delle enciclopedie (storica, filosofica, semiotica), il libro riesce impercettibilmente a portare Sherlock Holmes nel 1337, sugli innevati merli delle abbazie italiane. Perché Eco ha anticipato di decenni tutte le tendenze della serialità contemporanea, che dalla tv si è espansa al cinema con la complicità della letteratura. Umberto Eco ha ibridato i modelli narrativi, esaltando il potenziale narrativo della creatura di Conan Doyle e nello stesso tempo ha mostrato come riscrivere i classici e come trasfigurare in chiave pop la Storia. Con Guglielmo da Baskerville (proprio come Il Mastino) e il fedele Adso (spalla ma soprattutto io narrante, inevitabilmente derivativo da Watson), antesignani degli innumerevoli antieroi che popolano l’immaginario di fine e inizio millennio, dal Dottor House alle coppie di poliziotti di True Detective al Lightman di Lie to Me, è chiaro che Eco inventa la fiction moderna anni prima che questa esistesse. Così Eco:
Nella serie l’utente crede di godere della novità della storia (che è fondamentalmente sempre la stessa) mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di soluzione dei problemi… La serie in tal senso risponde al bisogno infantile, ma non per questo morboso, di riudire sempre la stessa storia, di trovarsi consolati dal ritorno dell’identico, opportunamente mascherato, e fasciato di novità superficiali (Eco 1984, p. 24).
Preconizzando in questo modo non solo la passione tutta moderna per questa forma d’espressione, ma anche e soprattutto l’identikit dell’utente seriale, che ha due “livelli”: il primo, nel quale si appassiona al ritorno dell’identico, e il secondo, dove emerge la consapevolezza delle strategie messe in opera dal testo. Con alla base l’idea che i testi seriali migliori giochino su entrambi i fronti. Ecco allora l’intelligenza dell’inserimento di Sean Connery, primo 007 e tra i primi attori a legare il suo nome ad un franchise seriale. Ed ecco perché Il nome della rosa è l’esempio della straordinaria modernità del suo autore, della sua crossmedialità ante litteram, anzi del suo anticipare la consapevolezza stessa della cultura di massa, con la sua rielaborazione dei “luoghi” già noti al lettore ma in forma iterativa.
Ed ecco infine anche perché, nonostante i pareri contrastanti di molti, la serie della Rai funziona, capace, sul piano narrativo e temporale, di contenere gli innumerevoli rivoli narrativi che dalla storia gialla principale si dipanano toccando gli ambiti più disparati. Il nome della rosa versione tv riprende, a volte in maniera calligrafica, passaggi essenziali dell’opera di Annaud; e se la differenza della resa finale sta proprio nella differente fotografia (qua piatta, là densa; qua acquosa, là melmosa), un cast di grande valore si innesta bene nei ruoli già ampiamente canonizzati dall’ombra lunga di Annaud. E nonostante qualche clamoroso esempio di miscasting (Fabrizio Bentivolgio in un ruolo che fa il paio con quello di Croce e delizia: i peggiori della sua carriera), tutto sembra funzionare bene: senza picchi, ma senza cadute di tono, sia che si considerino gli episodi rispetto al film, sia in assoluto rispetto al panorama serial attuale. Più che altro, però, il serial eredita il potenziale originale espandendosi oltre i confini del film, senza limiti di durata: e forse di questo non hanno tenuto conto i numerosi detrattori.
Tali detrattori, prima di tutto, contestano quasi il reato di lesa maestà nei confronti del dittico libro/film, senza considerare che, tra uno e l’altro, ci sono stati: Moni Ovadia che ha letto per Rai Radio3 un adattamento radiofonico in 35 puntate; una rappresentazione teatrale di Leo Muscato, un videogioco spagnolo dal titolo La abadia del crimen; un’avventura grafica Murder in the Abbey; diversi giochi da tavolo; versioni a fumetti targate Disney, come Il nome della mimosa, e Bonelli, come lo zagoriano L’abbazia del mistero; ed infine epiche suite metal suonate dagli Iron Maiden in The Sign of the Cross e dai Ten nell’album The Name of the Rose.
E poi, infine, sempre coloro che misconoscono i meriti della fiction Rai, non riconoscono quel valore aggiunto di cui si diceva prima, ovvero la temporalità: la possibilità che la fiction televisiva dà alla narrazione di stendersi e srotolarsi su se stessa, avvitandosi sulle pagine del libro o addirittura, allontanandosi da esso per inventare digressioni ex novo. È insomma una cattedrale multimediale Il nome della rosa: che dentro di sé inventa e permette di inglobare riflessioni sul presente e sul futuro, unendo in una sottile linea rossa passato e presente, amalgamando e sviluppandosi in testi e fonti, letterari, cinematografici e televisivi. “Hai detto una cosa molto bella, Adso: ti ringrazio. L’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso”: insomma, “stat rosa pristine nomine“. E di tutto questo, dai libri alle serie, non rimarranno che nomi.
Riferimenti bibliografici
P. Bertetti, Estetiche della serialità tra spettatori critici e audience competenti, in “Between“, vol. VI, n. 11, 2016.
U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 2019.
U. Eco, Tipologia della ripetizione, in F. Casetti, a cura di, L’immagine al plurale. Serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione, Marsilio, Venezia 1984.