La maschera del ragioniere Fantozzi viene da lì, dagli squallidi uffici della burocrazia russa, da quell’esercito di piccoli impiegati che, come tutti i sudditi che servivano lo Stato dell’Impero, era stato organizzato nel 1722 da Pietro il Grande tramite «la tabella dei ranghi», una classificazione che formalizzava la condizione giuridica e sociale e stabiliva addirittura il tipo di abbigliamento previsto. Viene da quell’universo di činovnik, di funzionari dell’amministrazione pubblica, individui senza particolari qualità, destinati a una vita da umiliati e offesi.

Un universo di piccoli uomini, spesso miti e cordiali, persi dietro amori irraggiungibili, tra le luci irreali delle notti bianche pietroburghesi, che attraversano la grande narrativa russa dell’Ottocento, da Dostoevskij a Čechov, e poi ritrovano spazio nella tarda commedia sovietica di autori come Georgij Danelija e soprattutto Ėl’dar Rjazanov (Romanzo d’ufficio, 1977, su tutti). Un universo di piccoli uomini, che per un nonnulla si tramutano però nell’essere più spregevole, nell’ultimo uomo (der Letzte Mensch) descritto da Nietzsche in Così parlò Zarathustra (1885): rancoroso, attento alla salute, alla ricerca continua di conforto. L’ultimo uomo procede con circospezione, si intrattiene con il lavoro, animato dalle piccole voglie per il giorno e dalle piccole voglie per la notte, allergico a qualsiasi forma di governo, esito estremo di un processo di civilizzazione europea che ha nell’uniformità dei suoi cittadini il suo tratto distintivo.

Ma prima dello sguardo fenomenologico di Nietzsche, la natura metafisica dell’ultimo uomo era stata indagata con occhio apocalittico dal Dostoevskij delle Memorie dal sottosuolo (1864): l’ultimo uomo è l’uomo del risentimento, dell’invidia sociale che si fa principio d’identità. Si sente responsabile soltanto del proprio benessere, ma è incapace poi di definire che cosa sia il proprio interesse. È sostenitore di una libertà assoluta, che però si riduce a quella di richiedere e dipendere da qualcuno che dovrebbe garantirne la soddisfazione. Odia tutto ciò che è straniero, ma quell’odio alla fine si rivolge contro di sé, contro la propria estraneità a tutto. Reclama continuamente la propria eccezionalità, e chiede costantemente che sia riconosciuta dall’altro. È quasi ridondante sottolineare quanto l’archetipo dell’uomo del sottosuolo permetta di capire non solo la Russia dell’Ottocento, ma il nostro tempo.

Il complesso simbolico del piccolo impiegato-uomo del sottosuolo, qui delineato per sommi capi, trova la sua origine in alcuni racconti scritti negli anni Trenta dell’Ottocento da Nikolaj Gogol’. Tra questi, uno dei vertici assoluti è Memorie di un pazzo (Zapiski sumasšedšego, 1835), ora ritradotto per Adelphi da Serena Vitale, insieme ad alcune scene tratte da una commedia incompiuta, Il Vladimir di terzo grado, pubblicata soltanto nel 1889 e sempre dedicata alla raffigurazione dell’universo paranoico dei funzionari dell’amministrazione pietroburghese. La prima pubblicazione del racconto è stata nel gennaio 1835 nella raccolta Arabeschi, insieme con Il ritratto e La prospettiva Nevskij, due frammenti del romanzo incompiuto L’atamano e alcuni scritti saggistici. Verso la fine dell’Ottocento, si prese l’abitudine di raccogliere quei tre racconti con altre due storie ambientate a San Pietroburgo, Il naso (1836) e Il cappotto (1842), con il titolo di Racconti di Pietroburgo. Abitualmente ritroviamo difatti Memorie di un pazzo all’interno di quella cornice.

La lettura di Memorie di un pazzo propone due domande: che cosa spinge alla follia il consigliere titolare Popriščin? E come rappresentare questa discesa nella follia? La critica del tempo di Gogol’ si divise tra chi leggeva le sue opere in funzione di una denuncia sociale (Belinskij su tutti, e più in generale l’ambiente pietroburghese legato alla rivista “Gli Annali Patri”) e chi invece ne proponeva un’interpretazione di stampo religioso (gli amici moscoviti come Aksakov e Konstantin, vicini allo slavofilismo, legati alla rivista “Il Moscovita”), per cui le disavventure dei piccoli uomini dell’amministrazione descriverebbero la disgregazione dell’uomo moderno di stampo occidentale.

Anche nel Novecento, c’è chi insisterà sul legame con la cultura popolare del riso e la sua funzione di critica alla fissità e rigidità di norme che si credono eterne (Bachtin 1979) e chi invece sottolineerà la capacità di rappresentare il principio del male inteso come smembramento e scomposizione di una realtà organico-integrale (Berdjaev 2001), che poi sarà alla base di alcune esperienze avanguardistiche (Belyj, il Cubismo). Queste due linee interpretative in realtà sono meno lontane di quanto potrebbe apparire. L’isolamento dell’uomo moderno, da cui si sprigiona il risentimento verso un “sistema” che non ne riconosce l’eccezionalità e l’alternarsi di frustrazione impotente e di superiorità delirante (in questo racconto, identificarsi in Ferdinando VIII, re di Spagna), è in Gogol’ il precipitato dell’affermazione sempre più pervasiva dello Stato-burocrazia, il quale in nome di una sempre maggiore efficienza, chiede di poter amministrare in ogni suo aspetto la vita, fino però a uniformarla, a renderla il prodotto di un modello astratto. La realtà dello Stato-burocrazia però, come ricordato in apertura, è particolarmente imponente e traumatica nell’Impero russo, che l’ha introdotta con violenza al tempo di Pietro il Grande. Una violenza esercitata anche in Memorie di un pazzo, dove Popriščin è messo al bando e costretto allo spazio di reclusione estrema, il manicomio.

La raccolta dei racconti pietroburghesi di Gogol’ permetteva di cogliere l’ampio spettro di erranze nelle vie di una città, Pietroburgo, che si faceva spazio metafisico. Immetteva perciò Memorie di un pazzo all’interno di un ciclo mitopoietico russo, che ha il suo testo centrale nel Cavaliere di bronzo (1833, ma pubblicato postumo nel 1837) di Puškin, il quale individuava il corpo del piccolo uomo, l’impiegato Evgenij, come il luogo nel quale la volontà demiurgica di Pietro, trionfante sugli elementi avversi della natura, minaccia per i nemici, fortezza per la Russia, collassava. Nel poema di Puškin, l’inondazione del 1824 distruggeva i sogni di felicità di Evgenij, travolgeva la sua promessa sposa, la madre, la casa. Evgenij scivolava nel delirio, vagabondava senza lavoro per la città, fino a ritrovare nella figura di Pietro, simboleggiata dalla statua del Cavaliere di Bronzo, il responsabile ultimo della sua infelicità. Lo splendore di un’Idea trovava l’ostacolo irriducibile, la miseria di una Vita incalcolabile, che non si sottomette alla volontà demiurgica dell’uomo.

Lo spazio metafisico di Pietroburgo come protagonista “assente” in gran parte si perde, isolando Memorie di un pazzo dal resto dei racconti gogoliani. Questo isolamento permette però di apprezzare meglio la specificità di un racconto che declina in modo quanto mai radicale una caratteristica diffusa della prosa gogoliana, ossia la stilizzazione del discorso orale parlato. Questo tratto stilistico ha trovato particolare attenzione negli studi della scuola formalista, Boris Ėjchenbaum in particolare, con uno studio del 1927, Com’è fatto «Il cappotto» di Gogol’. Quelle ricerche gravitavano attorno al problema dello skaz, termine difficilmente traducibile in italiano, che dal significato originario di racconto, relazione, resoconto dei fatti, sul finire degli anni Dieci nel campo della critica letteraria russa ha iniziato a significare una prosa nella quale sia fortemente avvertita e sottolineata la componente dell’oralità, della parola viva, insofferente verso le norme della lingua scritta. Questo tema, oscillante tra il campo della linguistica (quali sono i procedimenti tramite i quali riprodurre il tono e la gestualità di un discorso orale) e l’antropologia (quali sono le forme di cultura che hanno privilegiato la dimensione orale del narrare e della trasmissione del sapere), ha trovato negli stessi anni un interlocutore privilegiato in Bachtin, che però rispetto a Ėjchenbaum spostava il centro della questione dalla rappresentazione del discorso orale al problema della raffigurazione del discorso altrui.

Memorie di un pazzo propone nel modo più vertiginoso il tema della rappresentazione della parola orale in quanto altrui, permettendo di incrociare le riflessioni di Bachtin e di Ėjchenbaum. Il racconto è in prima persona e riproduce le pagine di un diario. L’autore Gogol’ sta quindi cercando di rappresentare un narratore, che si confronta con il problema costitutivo della forma del diario/confessione, il genere più prossimo al discorso orale, ma comunque altro rispetto all’oralità. A sua volta, quella scrittura diaristica deve progressivamente far emergere il tema della follia, ossia dell’alterità che si insinua nel cuore della stessa ragione, della norma che sottostà alla lingua stessa. La forzatura espressionista in direzione del linguaggio orale in Memorie di un pazzo si fa perciò procedimento utile a rappresentare l’alterità radicale, ossia lo scivolamento della lingua verso il proprio auto-dissolvimento, verso la negazione della propria capacità di comunicare e di costruire un mondo-in-comune. Ma questa negazione è per Gogol’ il contraccolpo rispetto alla lingua standardizzata, corrispettivo della vita amministrata e burocratizzata. La traduzione di Serena Vitale, rispetto a quella classica di Landolfi, tende ad ammorbidire la crudezza della lingua gogoliana, alcune forzature lessicali e sintattiche, ma il gorgo nel quale Gogol’ ci spinge a guardare rimane quello, il ghigno comico che si apre alla dissoluzione di ogni regola e realtà. Il gorgo del grottesco dionisiaco, nel quale proviamo tenerezza per le torture contro il corpo abbandonato a sé stesso di un povero impiegato e poi, con un movimento subitaneo, sorridiamo nonostante quella sofferenza, perché quel “matto” rivolge le sue ultime parole al bitorzolo sotto il naso del dey di Algeri.

Riferimenti bibliografici
M. Bachtin, Estetica e romanzo,  trad. it. Einaudi, Torino 1979.
N. Berdjaev, Gli spiriti della rivoluzione russa, a cura di M. Martini, Bruno Mondadori, Milano 2001.
F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, trad. it. Bompiani, Milano 2012.
B. Ėjchenbaum, Com’è fatto «Il cappotto» di Gogol’, in I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico,  a cura di T. Todorov, Einaudi, Torino 1968.
N. Gogol’, Racconti di Pietroburgo, traduzione di T. Landolfi, Rizzoli, Milano 1941.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1968.
A. Puškin, Il cavaliere di bronzo, in Id., Poemi e liriche,  a cura di T. Landolfi, Einaudi, Torino 1982.

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 2024.

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