È raro che un videogioco abbia l’esplicito obiettivo di pensare filosoficamente. Molto più comunemente, un’opera videoludica racconta tutt’al più una storia da cui scaturiscono eventualmente riflessioni. L’opera di Yoko Taro, NieR: Automata (2017), è un unicum nel panorama videoludico quantomeno nelle ambizioni: attraverso una storia ramificata e una direzione artistica ispiratissima cerca di indagare l’umano. L’intero intreccio è infatti appollaiato su una fabula dominata dall’enigma degli enigmi: che cos’è l’umano? La direzione di Yoko Taro porta il soggetto giocante verso interrogativi perturbanti, dalla cui risposta dipende il senso della sua stessa esistenza.
Prima di parlare di Automata, voglio aprire una parentesi sull’importanza ultimamente ricoperta dal videogioco nella comunicazione culturale. Esattamente come accaduto per il cinema, anche il videogame si sta lentamente sdoganando a forma d’arte e, di conseguenza, a un approccio ben più sistematico e multidisciplinare. Ne è un’evidenza l’emersione accademica dei game studies, una disciplina che studia l’impatto culturale dei videogiochi. Al netto di ogni ritrosia ormai anacronistica, il videogioco è una cosa seria e, più precisamente, è un fenomeno culturale dell’umano che ne espone l’essenza. La speranza è che nel tempo il videogioco assuma sempre più attenzione culturale e diventi gradatamente un’occasione per indagare l’umano in una sua forma specifica: quella (video)giocante. È con queste aspettative che approcciamo NieR: Automata, che personalmente ritengo uno dei plausibili apripista a questa indagine.
Seguendo la definizione di Ariemma, il videogioco è «la tecnica più potente di mostrare delle immagini, al punto tale da farci interagire con esse» (Ariemma 2023, p. 27). Diversamente dal cinema, dove l’interazione con le immagini è più intellettuale e riflessiva, nel videogioco c’è diretta correlazione tra soggetto e virtualità: mediante una componente hardware, quale il joypad, interagisco senza filtri con l’immagine su schermo. Il videogioco è così una sorta di virtualizzatore d’esperienza: il soggetto si affaccenda nel videogiocare tanto da lasciarsi interrogare moralmente, eticamente ed esistenzialmente. La direzione di Yoko Taro ruota su questa caratteristica del videogioco: se l’interazione è diretta e il soggetto si sente preso in considerazione, allora il videogame diventa uno dei mezzi più potenti per riflettere sulla soggettività.
Per capire la cosa in questione nell’opera ci serve delinearne la trama. La premessa è questa: a seguito di un’invasione aliena, l’umanità è alle strette e i pochi sopravvissuti costruiscono una base sulla Luna da cui inviare delle bio-macchine costruite per combattere la minaccia extraterrestre. Questo è il progetto YorHa. Il vero colpo di scena lo si ha scoprendo come gli alieni non avessero intenzioni negative: il loro scopo era studiare l’essere umano, ma le macchine da loro usate si ribellarono sterminandoli. Col passare del tempo alcune di queste hanno sviluppato grande interesse nell’umano tanto da organizzarsi secondo modelli sociali, politici, morali e culturali antropologici. È il caso del villaggio di Pascal.
Colgo l’occasione per specificare come Yoko Taro avesse bene in mente le implicazioni filosofiche della sua storia, tanto da infarcire di riferimenti diretti la sua opera a partire dai nomi dati alle macchine: al netto dell’ovvio Pascal appena citato, ogni boss del gioco ha il nome di un filosofo. Taro non si ferma qui: ogni nemico col nome di un filosofo avrà una caratteristica a ricordarlo; è il caso di Simone, una macchina in vestiti femminili chiaro riferimento a Simone de Beauvoir e al suo Il secondo sesso o di Engels, un’enorme macchina che riecheggia i processi di produzione e fabbricazione esposti ne Il Capitale con Marx. Sulla Terra ormai senza umani inizia così un’umanizzazione biomeccanica che riproduce pari passo la storia degli uomini.
Il progetto YorHa per la rinascita dell’umano combatte questa umanizzazione delle macchine usando a sua volta bio-macchine: gli androidi. Questi sono però diversi dalle macchine aliene: se loro possiedono sentimenti e possono empatizzare col mondo, le macchine non hanno alcuna emotività. O questo è quantomeno ciò che si crede inizialmente: studiando l’umanità le macchine aliene non solo acquisiscono schemi culturali ma pure forme psicologiche, sviluppando così sentimenti ed emozioni. È chiaro che il bersaglio di Yoko Taro sia a un livello meta-narrativo: tra l’umanità innata degli androidi e l’umanità riprodotta dalle macchine si gioca la partita del senso dell’umano, ma non è tutto qui; a un livello più profondo, ci si accorge che disvelare l’umano sia una questione della tecnica.
In Automata non ci sono umani eppure non si fa altro che parlare di umanità. Un passo emblematico di Heidegger recita: «L’opera è costruita su misura del corpo dell’utilizzante, che «è» tenuto presente nella fabbricazione dell’opera» (Heidegger 1971, p. 94). Yoko Taro ne deve avere avuto contezza in quanto è a partire dalla tecnica incarnata da un lato dagli androidi e dall’altro dalle bio-macchine aliene che si interroga la natura umana. Se un manufatto tecnico è commisurato a chi lo utilizza, le bio-macchine di Automata sono un fatto tecnico ben riuscito: non solo aderiscono al creatore ma ne riproducono addirittura le emozioni e i concetti. Se lo studio dell’umano delle macchine aliene è narrazione, è invece meta-testualità che si discuta l’umanità partendo dalla tecnica.
In altre parole si cerca di tirare le somme dell’umano partendo dal non-umano in maniera non diversa da quanto Platone faccia col filosofo indagando però il sofista. La ricerca di Yoko Taro volge sull’umano partendo da quanto umano non è, o lo è solo in una parziale e perturbante parte, percorrendo una traiettoria ontologica che naufraga in una risposta labirintica. E non ci si poteva certo aspettare altrimenti. I finali delle opere di Yoko Taro sono notoriamente amletici e, come se non bastasse, ognuna gode di più finali ottenibili soddisfacendo alcune richieste in gioco. Nello specifico NieR: Automata conta cinque finali principali a cui se ne sommano altri sedici scherzosi o non direttamente impattanti la trama, per un totale di ventuno sbocchi possibili.
La costruzione narrativa dei finali di Automata è intricata perché inusuale: dei cinque finali principali cui sopra, quattro sono consequenziali. Ovverosia, l’uno sviluppa l’altro portando la trama a evolversi sempre più in là. In altri termini se quattro sono i finali veri e propri del gioco, i primi tre lo sono in modo falso. Il gioco ricomincia ma, ripetendo costantemente le proprie gesta, l’avventura avanzerà sempre più rispetto alla conclusione precedente. È una stoccata registica atta a rappresentare l’eterno ritorno dell’uguale nietzschiano, nonché il fatto che, come dice B2, la protagonista dell’opera: “Siamo eternamente intrappolati in una spirale di vita e morte… È una maledizione o una punizione?”.
In conclusione la domanda posta da Automata non è cos’è l’umano ma dov’è l’umano nell’epoca della tecnica: non c’è umanità nell’opera eppure tutto la riproduce fedelmente. Sono umani gli androidi emotivi fatti dall’uomo e sono umane le macchine aliene che hanno potuto replicarne l’essenza? E l’uomo vero e proprio è umano? E se sì, in che misura differisce dagli enti tecnici incontrati nell’avventura, coi quali empatizziamo e dei quali vestiamo i panni? Ai giorni nostri – nell’epoca dei social network, dei metaversi, della globalizzazione liquida e della pervasività tecnica – si tratta di interrogativi impellenti che non possiamo evitare ancora per molto. NieR: Automata di Yoko Taro può essere un’occasione per riflettere sull’umano di questi tempi dove la sua identità pare vacillare.
Riferimenti bibliografici
T. Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation, Tlon, Milano 2023.
M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1971.
NieR: Automata. Direzione: Yoko Taro; sviluppo: PlatinumGames; pubblicazione: Square Enix; origine: Giappone; anno: 2017.