“In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cosa hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. Potremmo parafrasare questa celebre battuta tratta da Il terzo uomo (1949) di Carol Reed anche per l’UWSA, uno stato che ha conosciuto quasi un secolo di barbarie, rappresaglie, rivolte, decapitazioni e, oggi, è il più grande baluardo del narcotraffico del Sud-Est asiatico. Ne verrebbe fuori un triangolo curioso: Rinascimento, orologi a cucù, metanfetamine. Potremmo parafrasare, certo. Ma per farlo dovremmo prima sapere cosa diavolo è, l’UWSA. Che pronunciato così sembra il nome di una società di trasporti.
Per ironia della sorte, questa battuta da due soldi contiene una mezza verità, perché di import-export, consegne puntuali e pacchi ben imballati da quelle parti ne sanno qualcosa. L’UWSA è infatti l’acronimo di United Wa State Army, Esercito Unito dello Stato Wa, una nazione fantasma il cui territorio fa parte della Birmania, ma che in realtà opera in modo autonomo. E che – cosa strana a dirsi ai giorni nostri – non è interessato a nessun riconoscimento formale, né a comparire sulle mappe ufficiali. A volerla dire tutta, l’UWSA non è nemmeno considerabile un blocco unico. È diviso piuttosto in due territori contigui, che comprendono la madrepatria, e cioè lo Stato Wa propriamente detto, e il Sud Wa, una regione montuosa amministrata da gruppi militari armati indigeni, di cui i Wa sono ritenuti i più temibili.
Ce lo racconta Patrick Winn nel suo stravolgente Narcotopia, un corpulento libro che, presentato così, ci dà la sensazione di brancolare ancora nel buio, ma che comincia ad assumere un senso – e per giunta inquietante – se lo abbiniamo al sottotitolo: Indagine sul cartello della droga asiatico che ha sconfitto la CIA. Winn è un giornalista investigativo che vive in Thailandia, lo stato che, ormai dai tempi della Guerra Fredda, fa da base operativa ad agenzie americane come la DEA e la CIA. Presenta il suo libro come la ricerca di una verità rimasta nascosta per decenni, celata dalla grande ombra che ha visto contrapporsi capitalismo e comunismo. Ma, aspetto ancor più interessante, non tira fuori questa verità da altri libri o da brandelli di giornale. Winn nello stato Wa ci si è infiltrato, ha parlato con i suoi abitanti e, soprattutto, ha intervistato buona parte dei protagonisti delle rocambolesche vicende che lo rendono ciò che è oggi: un affascinante mistero da cui le agenzie turistiche vi tengono alla larga.
Pochi popoli sono diffamati quanto gli Wa, da sempre. Sudici e selvaggi per gli inglesi colonizzatori, barbari testardi per i cinesi della dinastia Qing, nonché, secondo gli standard del governo USA, una delle più grandi organizzazioni criminali mai esistite. Lo stato Wa non compare sulle carte ufficiali abbiamo detto, eppure possiede una rete elettrica, scuole, parabole satellitari, vialetti con case a due piani, bandiere e inni nazionali. Fino agli anni sessanta erano cacciatori di teste, dopodiché si sono dati al narcotraffico, diventando una superpotenza da sessanta miliardi di dollari l’anno. Soprattutto, la superficie di questo stato fantasma, più difficile da raggiungere dell’Antartide, pullula di impronte di servizi segreti americani, di agenti birmani sotto copertura e di esuli del governo cinese.
Riassumere l’intera vicenda di Narcotopia è impossibile, e non sarebbe rispettoso nei confronti di un libro sovrabbondante, che fa dell’ossessione per il dettaglio la sua forza. Tuttavia, possiamo provare a fornire ai suoi potenziali lettori qualche coordinata, facendo di questa recensione una sorta di guida turistica clandestina per i curiosi. E potremmo cominciare proprio dicendo che, nel secondo dopoguerra, chi finiva per qualche motivo alle soglie dei villaggi Wa si trovava di fronte uno scenario al quanto folkloristico: «Lungo i sentieri ciottolosi c’erano teschi montati su pali. I crani erano disposti in file ordinate con le cavità oculari rivolte verso Ovest: la direzione del tramonto, la direzione della morte. Era il modo in cui i Wa intimavano il divieto di accesso senza bisogno di usare parole» (Winn 2024, p. 54).
A descrivere un simile paesaggio a Winn è Saw Lu, ribattezzato dalla CIA “Superstar”, cresciuto in una scuola battista americana al confine tra Cina e Birmania ma di sangue Wa, nato tra quelle montagne prima di diventare un esule del comunismo. E difatti, quando attraversa il sentiero di teste per recarsi alla città-fortezza di Pang Wai, Saw Lu non è un turista disperso, ma un agente del regime militare birmano con un incarico ben preciso: civilizzare i Wa quel tanto che basta per aizzare la loro sete di violenza contro i comunisti cinesi. Non incontra capi, soltanto una comunità di guerrieri-agricoltori votati alla pura anarchia. Le sue radici Wa fanno sì che lui e la moglie Mary superino il confine senza essere sbudellati.
All’inizio si spaccia per un insegnante, ruolo che gli permette di entrare in contatto con la cultura del suo popolo d’origine e – aspetto a lui meno noto – dell’innumerabile quantità di oppio che i Wa rivendono ai narcotrafficanti sul confine birmano. Tra una lezione di grammatica e l’altra, scopre che la CIA aveva cominciato da tempo ad armare i profughi anticomunisti, che la neonata agenzia governativa voleva fare in modo che i nemici di Mao rimanessero indipendenti dalla Cina, e che in parte ci stava riuscendo. Gli esuli erano ben felici di raccogliere i doni che gli americani facevano piovere loro dal cielo, ma non erano ingenui quanto la mentalità occidentale credesse: negli anni, avevano riconvertito quel capitale grezzo in un’impresa locale in puro stile capitalista. Un’impresa locale che, per l’appunto, sfornava tonnellate d’oppio e le raffinava in eroina da smerciare nel Vietnam del Sud. E i loro principali clienti, per ironia della storia, erano proprio gli americani, quei soldati che il governo a stelle e strisce aveva mandato a seminare la morte nella guerra del Vietnam.
Se Saw Lu si guadagnerà il nome di Superstar c’è un motivo preciso: nonostante la sua formazione religiosa, egli non voleva convertire i Wa al Messia, ma divenire egli stesso una guida, un protettore. Anche un signore della guerra se necessario. Facendosi coraggio, rivela la sua identità ai Wa, trasforma la vecchia scuola in un centro di addestramento paramilitare, fonda una chiesa il cui idolo è una granata appesa al soffitto e, con un po’ di ingegno e una gran faccia tosta, riunisce i leader locali sotto la stessa bandiera. L’operazione riuscì talmente bene da scatenare una sanguinosa rappresaglia comunista a cui, nel 1989, fece seguito l’ennesima ribellione Wa, quella che portò alla fondazione dell’UWSA, che ancora oggi tiene insieme i popoli di quelle montagne sperdute al confine birmano.
Saw Lu viveva di ideali. È stato il sogno di uno stato Wa indipendente e civilizzato a farlo sopravvivere alla guerriglia, alle missioni sotto copertura per conto della DEA e agli anni di prigionia. Idealista sì, ma quel tanto che bastava per rimanere coi piedi per terra: sapeva benissimo che, per quanto deplorevole, il narcotraffico rimaneva l’unica alternativa possibile alla caccia alle teste, una soluzione transitoria per non ricadere nella barbarie delle decapitazioni. Tutt’altro che retrograda, la nuova nazione Wa prese il narcotraffico decisamente sul serio, tanto da farne il perno della sua consacrazione economica. Rase al suolo i campi di papaveri e passò dall’oppio alle metanfetamine, un progetto di diversificazione produttiva formalmente gestito dal presidente Bao Youxiang ma in realtà orchestrato dalla figura più oscura di tutto Narcotopia, l’impalpabile capo delle finanze UWSA e boss Wei Xuegang: un genio consumato dalla paranoia che – si racconta – non sorride mai, cucina i propri pasti da sé per timore di essere avvelenato e indossa a ogni ora del giorno un robusto cappotto per nascondersi dai satelliti americani.
Un asso del narcotraffico, Wei, che operava come un astuto CEO capitalista in grado di trasformare una scompaginata tribù nella multinazionale che irrora di droga l’intero Sud-Est asiatico. Per evitare di mobilitare i suoi nemici di Washington, aveva deciso di bloccare lo spaccio in Occidente e di concentrarsi sul suo territorio. Una mossa geniale, che tuttavia non sarebbe stata concepibile senza l’assist delle malsane virtù del capitalismo: i suoi milioni di clienti sono infatti quelle stesse persone che i giganti americani costringono a lavorare a orari improponibili e a stipendi irrisori per produrre gli smartphone da cui state leggendo questa recensione, le scarpe griffate che indosserete nel weekend e tutte le altre merci simbolo su cui prospera il nostro beneamato consumismo. Wei aveva capito prima di ogni altro che non valeva la pena esportare le metanfetamine al di là dell’Oceano. Che non c’era alcun bisogno di alimentare la tossicodipendenza occidentale quando si poteva contare sull’abbondante clientela che, proprio loro e dopotutto anche noi, gli avevamo inavvertitamente fornito.
Chiamatela, se volete, astuzia del capitalismo: tramutare una contraddizione storica, una mostruosità economica cinica e ai limiti dell’inumano, in un mercato a cielo aperto dalle potenzialità illimitate. Che poi, tradotto in narcotraffichese, si riduce grossomodo a questo: ridurre la metanfetamina in polvere per farne un prodotto ancor più semplice da consumare (per non dire da smerciare), lo speed alla vaniglia, «la droga ideale per la moderna forza lavoro asiatica» (ivi, p. 358). La droga che puoi acquistare a un paio di dollari a pillola, che ti permette di lavorare come un drago e, una volta incassati gli straordinari, di avere a disposizione un budget extra per andare a comprarne altra.
Patrick Winn, Narcotopia, traduzione di S. D’Onofrio, prefazione di R. Saviano, Adelphi, Milano 2024.