di ALESSANDRO CANADÈ
Muhammad Ali di Ken Burns, Sarah Burns e David McMahon.
6 febbraio 1967. Houston, Texas. Muhammad Ali sta difendendo il titolo di campione dei pesi massimi conquistato nel 1964 ai danni di Sonny Liston. Proprio dopo essere diventato campione (a soli 22 anni) ha annunciato la sua conversione alla religione musulmana e il cambio del nome, da Cassius Clay a Muhammad Ali. Il suo avversario questa volta è Ernie Terrell. Il giorno precedente al match, davanti alle telecamere della ABC, Terrell si rifiuta di chiamarlo con il suo nuovo nome, provocando l’ira del campione. Ali dichiara che picchierà Terrell finché non lo chiamerà nel modo corretto: “Lo torturerò. Un semplice ko sarebbe troppo bello per lui”. E mantiene la parola. Sul ring, mentre colpisce furiosamente Terrell, continua a ripetere: “What’s my name? What’s my name?”.
È un episodio, questo, che mostra in maniera esemplare quel particolare intreccio di performance corporea (il match è considerato dagli esperti come la più bella esibizione tecnica di Ali) e atto linguistico che costituisce lo specifico della figura di Muhammad Alì: «Rifiutarne il nome significa non accettare il significato etico-politico di un pugile scomodo, di un nero che stranamente parla» (Mazzeo 2017, p. 100). Con Muhammad Ali la parola e il conflitto sociale entrano nella boxe.
Le otto ore della monumentale docu-serie (divisa in quattro parti, “round”) Muhammad Ali di Ken Burns, Sarah Burns e David McMahon, presentata alla Festa del Cinema di Roma, lo mostrano perfettamente. Si fanno infatti racconto, ricorrendo a straordinarie immagini di repertorio, di un momento decisivo della storia americana attraverso quello che è a tutti gli effetti uno dei grandi protagonisti del XX secolo. L’incarnazione stessa dello spirito del secolo, icona della nascente società dello spettacolo.
Nel corso degli anni sono stati diversi i film, che tra documentario e ricostruzione finzionale, hanno raccontato Ali: da Muhammad Ali the Greatest (1974) del fotografo/regista William Klein a Io sono il più grande (1977) di Tom Gries e Monte Hellman, da Quando eravamo re (1996) di Leon Gast a due film come Alì (2001) di Michael Mann a One Night in Miami (2020) di Regina King, passando per Muhammad Ali’s Greatest Fight (2013) di Stephen Frears. A conferma della centralità di una figura le cui performance, dentro e fuori dal ring, hanno toccato questioni cruciali dell’America degli anni sessanta: i pregiudizi razziali e quelli religiosi, il ruolo delle celebrità e quello dello sport nella società. E poi la guerra del Vietnam e il conseguente rifiuto di rispondere alla chiamata alle armi (“Io non avuto niente a che ridire con quei vietcong. Nessun vietcong mi ha mai chiamato sporco negro”), che gli è costato la perdita della licenza pugilistica per quattro anni.
Ma se con Muhammad Ali il pugilato diventa anche arte della parola, resta sempre arte della danza. “Egli danza” rispondeva Orson Welles alla domanda di un giornalista su Fellini in una famosa scena de La ricotta di Pasolini. La stessa affermazione si potrebbe utilizzare proprio per Ali. D’altra parte, se c’è uno sport (un’arte) vicino alla boxe (la noble art) questo è proprio la danza (in un film come Billy Eliott, il ragazzino protagonista passava proprio dal pugilato alla danza). L’Ali shuffle, caratteristico movimento dei piedi, quella “danza di gambe a forbice”, che cos’è se non appunto un balletto? Alì di Michael Mann andava proprio in questa direzione. Tanto che il film diventava una sorta di musical: «In Alì, gli incontri di boxe sono girati quasi come balletti di un musical, scanditi dal rumore sordo dei guantoni, ma anche dal ritmo del sound dell’epoca. […] Alì danza. Giustamente, Mann piazza spesso la mdp all’altezza del tappetto (del ring) e inquadra il gioco dei suoi piedi. Quell’equilibrio sottile tra artificio e naturalezza, che è il problema dell’attore, è anche il problema del pugile» (Cappabianca 2004, p. 139).
C’è una forte analogia tra la performance del pugile sul ring e quella dell’attore, in teatro così come al cinema. Quest’ultima chiama in causa la centralità del corpo dell’interprete/performer – era in questa direzione che andava One Night in Miami, raccontando l’incontro tra quattro icone della cultura afroamericana: il cantante Sam Cooke, il giocatore di football Jim Brown, il leader nella lotta per i diritti dei neri Malcom X e appunto il neo campione dei pesi massimi, Cassius Clay, tutti performer, che, in forma diversa, con lo spazio scenico dovevano necessariamente confrontarsi –, lo spazio del set/ring – è significativo che in italiano si utilizzi lo stesso termine “ripresa” per indicare la fase di lavorazione di un film e i round di un incontro di boxe –, la ritualità dello spettacolo. E poi naturalmente la celebrazione del corpo “sacro” della star.
Tutto questo nel caso di Ali trova una perfetta incarnazione. Ne fa una figura chiave, un’icona, di quella società dello spettacolo che proprio in quegli anni sta prendendo piede. «Ali accetta la sfida della società dello spettacolo, con alterne fortune prova a conquistarla e a metterla in crisi» (Mazzeo 2017, p. 103). Vanno letti in questo senso la registrazione di album con poesie e monologhi (I’m the Greatest!, 1963), la recitazione in documentari come Black Rodeo (1972) o in altri film (Requiem for a Heavyweight, 1962; The Greatest, 1972; Freedom Road, 1978); negli anni della sospensione per la vicenda del Vietnam, partecipa poi a un musical (Big Time Buck White, 1969); fonda successivamente una catena di supermercati; dà il proprio nome a una tavoletta di cioccolata, a un diario scolastico e a un cartone animato (ivi, p. 15). Tutto questo mentre i contemporanei guardano al suo comportamento con sospetto perché eccentrico e innovativo: fino a quel momento il pugile è un uomo di pugni e non di parola. “The Louisville Lip”, è il soprannome più diffuso che gli viene attribuito.
Ed è qui che risiede la particolarità e la centralità di Ali: il suo essere una figura che confonde le idee, che mescola carte di giochi che appaiono inconciliabili. Ed è qui che risiede il suo valore politico e quanto mai attuale: il riuscire a dare voce a chi non aveva voce e provava proprio in quegli anni a farsi sentire. Diventando voce egli stesso. Nella velocità e perfezione di movimento di piedi e di colpi, di mano e di bocca.
I’m gonna float like a butterfly
And sting like a bee
George can’t hit
What his hands can’t see
Now you see me
Now you don’t
He think he will
But I know he won’t
They tell me George is good
But I’m twice as nice
And I’m gonna stick to his butt
Like white on rice
I’m the greatest of all time
Of all time
And the ultimate fighter
Riferimenti bibliografici
A. Cappabianca, Boxare con l’ombra. Cinema e pugilato, Le Mani, Recco 2004.
M. Mazzeo, Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile, DeriveApprodi, Roma 2017.
Muhammad Ali. Regia: Ken Burns, Sarah Burns, David McMahon; sceneggiatura: Ken Burns, Sarah Burns, David McMahon; fotografia: Buddy Squires; montaggio: K.A. Millie, Ted Raviv, Woody Richman, Aljernon Tunsil; musiche: Jahlil Beats, Peter Miller; produzione: PBS; origine: Usa; anno: 2021; durata: 445’