Nel 1990, il marchio Marithé et François Girbaud commissiona a Jean-Luc Godard la comunicazione per il lancio di rivoluzionari jeans. Godard crea Métamorphojean, cinque spots pubblicitari di circa venti secondi ciascuno, realizzati seguendo una precisa logica formale: ogni spot si apre con il titolo del lavoro realizzato da Godard e i nomi dei committenti; in sottofondo, canti e voci di uomo e di donna che ripetono incessantemente “la mode”, quindi appaiono dei modelli, nudi o mezzi vestiti, che assumono pose quasi fossero dei tableaux vivants. A quei modelli, seguono immagini prelevate dalla storia dell’arte e dalla storia del cinema. Ogni spot è dedicato a un tema: l’arte, la guerra, la bellezza, l’amore, il cinema, e alla capacità di ognuno di metamorfizzare la realtà. La moda, allora, sembra diventare, per Godard, un mezzo in cui risuonano questioni estetiche fondamentali, ossia dove è in gioco la sensibilità, quindi il modo in cui l’uomo commercia con il sensibile. Infatti, la moda appare come il medium fondamentale che contiene la capacità dell’arte di “non vedere”, ma di metamorfizzare; della guerra di “non comprendere”, ma di metamorfizzare; della bellezza di “non ascoltare”, ma di metamorfizzare; dell’amore di “non pensare”, ma di metamorfizzare; del cinema di “non parlare”, ma di metamorfizzare. Nella serie godardiana, la moda sembra apparire in quanto fenomeno fondamentale attraverso cui riflettere sul modo in cui l’uomo storicamente ed esteticamente esiste: anche chi ha innalzato il cinema all’altezza del pensiero, se non della filosofia, ma di una filosofia per immagini in movimento, non è quindi esente dal confronto con un “oggetto” così effimero eppure così centrale nella contemporaneità.

La pubblicazione di Moda. Un gioco seduttivo di Eugen Fink (Einaudi, 2024), tradotto da Vincenzo Santarcangelo e curato da Giovanni Matteucci, ha proprio il merito di considerare La moda come fenomeno-chiave della filosofia – che è anche il titolo della prefazione di Matteucci al testo di Fink – oltre che della contemporaneità. Nella sua prefazione, Matteucci – che ha già firmato un importante volume dedicato alla centralità della moda nella riflessione estetica contemporanea (2017) – mostra come la moda sia per Fink molto più di un divertissement: contro il «discredito filosofico della moda contro cui Fink spesso si pronuncia» (Matteucci 2024, p. IX), a quel fenomeno è invece riconosciuto «uno statuto filosofico speciale, lo statuto di fenomeno-chiave» (Fink 2024, p. 96).

Il pensiero di Fink, infatti, che «si origina all’incrocio tra il versante husserliano e quello heideggeriano del pensiero novecentesco» (Matteucci 2024, p. VII), scorge nella moda un fenomeno centrale da analizzare per continuare a «indagare le strutture che qualificano l’essere umano nella sua esistenza mondana» (p. IX), sempre a partire dalla più rivoluzionaria acquisizione fenomenologica: l’essere umano non possiede il corpo [Körper], quasi fosse un oggetto; esso è innanzitutto corpo vivente [Leib]. Nel corpo vivente, infatti, si attesta il tramonto di «ogni ipotesi di precostituzione tanto della soggettività quanto dell’oggettività rispetto alla scena vivente in cui opera una realtà esperienziale fatta di nessi e connessioni nella continuità di mente, corpo e mondo» (ivi, pp. IX-X), dove l’essenza fa tutt’uno con l’esistenza, ossia dove «l’ordine delle “forme immutabili” e quello dei “processi contingenti” appare mutuo e inestricabile» (ivi, p. X). L’essere umano esiste, dunque, sempre in una sorta di stato di medietà; nella sua «esistenza di mezzo», si «incontrano fenomeni contraddistinti da uno statuto intrinsecamente ambiguo, o quantomeno biunivoco. A questi si volge la filosofia di Fink, che dunque si imbatte nella moda nell’atto di torcersi in un’antropologia radicale» (ivi, p. X).

È il 1969 quando le riflessioni di Fink sulla moda vengono pubblicate per la prima volta: il periodo della più feroce mutazione antropologica, si potrebbe dire con Pasolini, in cui il fenomeno della moda sembra presentarsi, proprio nel suo potere massificante, in quanto mezzo in grado di captare, produrre, mediare il desiderio. In effetti, Fink tenta di comprendere quell’apparizione nella sua capacità di costruzione di senso, ossia nel suo essere un linguaggio che gioca con il desiderio; la sua riflessione si pone allora al di là di chi considera «l’abito solo come mezzo per coprire le nostre nudità o come insieme di semplici indumenti utili a ripararci dalle avversità atmosferiche o necessari per il lavoro» (Fink 2024, p. 22), quindi allontanandosi anche da chi considera il fenomeno della moda in maniera superficiale e giudicante.

È proprio a partire dall’idea che la moda sia un gioco in cui si gioca con il desiderio che è possibile cogliere il senso del sottotitolo di Moda di Fink: un gioco seduttivo. Il corpo vivente è sempre immerso in un ambiente, ossia è sempre preso nelle relazioni “commerciali” con le cose del mondo, quindi con gli altri corpi viventi, in cui «lavoro, lotta, amore, gioco e culto dei morti» «costituiscono i campi di vita essenziali della comunità umana»; in cui si «situano i fenomeni sociali: economia e tecnica, governo e stato, matrimonio e famiglia, festa, celebrazioni, passatempi e, infine, quella devozione con la quale si celebrano i riti funebri fin dall’antichità più remota» (ivi, p. 17).

La moda in quanto fenomeno sociale, in virtù della sua costitutiva medietà priva di finalità, si situa proprio all’interno del gioco, che è «privo di ogni carattere strumentale», e a cui «pertiene il tempo della presenza» (Matteucci 2024, p. XIV). Per quanto privo di finalità, il gioco è

un fenomeno di base che non si verifica accanto e al di fuori della serietà dell’esistenza ma, piuttosto, replica e rispecchia nella propria sfera tutte le imprese serie al modo del come se: parafrasa ironicamente quel che è serio, mette in scena onori, titoli, questioni importanti, affari e conflitti, fa comparire magicamente un mondo di apparenza e nondimeno non vi soccombe. Gli esseri umani trascorrono il proprio tempo libero in un grande gioco di società che abbraccia una miriade di piccoli giochi particolari (Fink 2024, p. 67). 

Nella contemporaneità, la moda diviene un gioco decisivo a cui partecipano «attivamente più esseri umani di quanto mai in passato», dal momento che, secondo Fink, la società tecnologica concede a tutti le condizioni di possibilità per partecipare al gioco della moda: tempo libero e mezzi finanziari (cfr. ivi, p. 74). Fink considera quell’ampliamento di possibilità non in quanto “livellamento”, ma come una possibilità di elevare le masse «a un gusto raffinato» (ibidem), ossia, sembrerebbe pensare, elevare le masse al bello. In effetti, appare critico proprio nei confronti dell’uso della moda da parte dei giovani che, negli anni in cui scrive, attentano al bello (cfr. ivi, p. 76), sebbene facciano sbocciare ovunque primavere che mettono in questione le stagioni della moda, in cui l’effimero e il sempre diverso di quella tecnica si accordano alla ripetizione dell’identico del «ritmo della natura» (ivi, p. 20). Per Fink, allora, il gioco della moda dovrebbe essere regolamentato, in quanto è «compito culturale e pedagogico di prim’ordine far sì che l’essere umano raggiunga un’autoconsapevolezza in quanto giocatore» (ivi, p. 76).

È possibile pensare che Fink suggerisca una necessaria conduzione del gusto volta a frenare le derive barbare del fenomeno della moda proprio a causa del carattere seduttivo di quel “gioco di società”. Il corpo vivente, infatti, non solo avverte l’esigenza di coprire la propria nudità, celando la vergogna, distinguendosi, così, dall’animale; riflette anche sulla maniera in cui ricusare la propria nudità, o richiamarla, velarla, esibirla artificialmente. La moda, allora, è seduttiva nella misura in cui gioca con la nudità e con la carica erotica che appartiene a ogni corpo: gioca con quella potenza, senza neutralizzarla (cfr. Matteucci 2024, p. XXIII). È seduttiva perché sublima – «tutti coloro che creano e danno nuove forme alla moda devono avere buona conoscenza dei contenuti psicoanalitici» (Fink 2024, p. 45) –; è seduttiva perché veicola o, meglio, governa i desideri – un governo, però, che fa leva sulla libertà: il fenomeno della moda, oggi, non impone un diktat, bensì offre un campo in cui giocare liberamente, nella tensione tra livellamento e unicità del singolo.

È, allora, possibile leggere le riflessioni di Fink sulla moda come un tentativo della filosofia di mediare un fenomeno che è esso stesso medium privo di finalità e che tuttavia decide, di volta in volta, del commercio sensibile dei corpi viventi? Proprio per la sua capacità di esibire le contraddizioni che riguardano il corpo vivente, la moda è quel medium che per mezzo di abiti “media” un senso (cfr. ivi, p. 54), ossia che presenta un potenziale discorsivo costruttore di relazioni di senso. E tuttavia, come nota già Simmel nel 1910 (Simmel 2015) – le cui riflessioni Fink sembra conoscere, nonostante non lo citi (cfr. Matteucci 2024, p. VIII) –, proprio in quell’apparizione di relazioni di senso è implicita la sparizione di ogni senso: l’ingovernabile del corpo vivente.

Riferimenti bibliografici
G. Matteucci, Estetica della moda, Mondadori, Milano 2017.
G. Simmel, La moda, Mimesis, Milano-Udine 2015.

Eugen Fink, Moda. Un gioco seduttivo, Einaudi, Torino 2024.

Tags     corpo, Eugen Fink, moda
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