È nelle due macro sequenze negli abissi del mare e nelle altezze del cielo che prende corpo l’operazione teorica compiuta dell’ultimo Mission: Impossible The Final Reckoning, nella loro costruzione attorno a continue coppie dicotomiche di alto/basso, gravità/leggerezza, concretezza/astrazione, che fanno di questo ottavo capitolo della serie un potente discorso sul cinema.

Prima però un breve recap. Sono trascorsi due mesi dai fatti narrati nel precedente Dead Reckoning (McQuarrie, 2023) ed Ethan Hunt e il suo team sono di nuovo sulle tracce del pericoloso terrorista internazionale Gabriel e del vero antagonista della vicenda, l’“Entità”, ovvero l’Intelligenza Artificiale, la nuova vera minaccia, senza corpo, per le sorti del mondo. A Londra, Ethan riceve una videocassetta (l’analogico come antidoto alla minaccia digitale su cui il film ritorna in vari momenti) dalla Presidente degli Stati Uniti, che gli chiede di arrendersi e consegnare la chiave cruciforme in grado di disinnescare l’Entità. Ethan incontra Benji a Trafalgar Square e con lui raggiunge Luther, che si era isolato da ogni accesso alla rete internet cosi da trovare il modo di neutralizzare l’Entità. Luther, nel frattempo, ha prodotto un congegno che può infettare l’Entità se accoppiato al “podkova”, il dispositivo contenuto all’interno della sfera del sonar del sommergibile russo Sevastopol, affondato in un punto imprecisato nel Mare di Bering, che contiene il codice sorgente originale dell’Entità.

Veniamo qui alla prima delle due macro sequenze: Ethan, dopo aver ottenuto la fiducia della contrammiraglia Neely, si fa portare nelle vicinanze della posizione di un sottomarino della marina Usa al fine di trovare il Sevastopol; una volta arrivatovi convince il comandante a collaborare per aiutarlo a raggiungere i resti del sottomarino imploso nel 2012. Dopo aver sventato un attacco di uno dei soldati sul sottomarino, infiltrato e fedele all’Entità, ottiene una tuta speciale per le immersioni di profondità. Consapevole dei rischi, si getta nelle profondità marine riuscendo a recuperare il podkova. Uscire però dal relitto è una faccenda molto più complicata dell’entrarci, tanto che Ethan è costretto a liberarsi della tuta, restando seminudo nelle gelide acque del nord Pacifico. Per quasi un quarto d’ora, Ethan/Cruise resta solo in scena, si muove tra cadaveri in decomposizione ed enormi testate nucleari, aggrappandosi alle pareti del sommergibile rovesciato. La dialogicità solita del film lascia il posto al solo corpo dell’attore al lavoro

La seconda: per contenere l’Entità e rinchiuderla Ethan intende farsi prendere di proposito il podkova da Gabriel che lo collegherà al dispositivo creato da Luther per spingere l’Entità a ripararsi dal virus nel caveau dove il suo team potrà immagazzinarla in un hard drive ottico. Le cose però si complicano per l’arrivo anche di una squadra della CIA che consente a Gabriel di fuggire. Ethan raggiunge Gabriel, scappato sul suo aereo biplano biposto (non rintracciabile dall’AI), riuscendo a salire in modo rocambolesco sull’aereo del complice, sbarazzandosene. “Danzando” tra i due biplani Ethan sale su quello di Gabriel e dopo un’aspra lotta in cielo, ha la meglio su di lui recuperando il podkova e il congegno creato da Luther. Gabriel precipita dall’aereo e muore, ma l’aereo prende fuoco ed Ethan è costretto a lanciarsi nel vuoto tentando di collegare i due dispositivi mentre è in caduta libera. Qui il corpo di Ethan/Cruise dialoga esplicitamente più con i corpi dello slapstick, sempre al di là delle leggi della fisica e della logica. Come in Keaton, in Lloyd, le acrobazie di Ethan liberano il suo corpo dalla “pesantezza” della sua mortalità (tema centrale del film) lasciandolo precipitare in caduta libera, avvolto dalle nuvole.

Se il corpo e le sue performance sempre ai limiti dell’impossibile (ma non è questa poi la caratteristica del mito, categoria alla quale inevitabilmente sono ascrivibili le avventure di Ethan Hunt, cioè il suo essere dalla parte dell’infantile, dell’ingenuo, del paradossale, del prodigioso, dell’incredibile?) sono stati il fulcro dei trent’anni delle missioni di Ethan (dal seminale film di De Palma del 1996 a The Final Reckoning, che dovrebbe chiudere la serie, come indica il titolo, e che nel primo atto vuole ricapitolare l’intero universo “huntiano”, con frammenti dei film precedenti e con personaggi che ritornano costruendo una grande narrazione interconnessa) ora questa operazione è portata alla sua estremizzazione. Trent’anni in cui il corpo di Ethan/Cruise ha continuato a correre, saltare, restare sospeso (in una traduzione visiva di quella strategia narrativa che costituisce il fulcro del racconto seriale, cioè il cliffhanger, letteralmente, appunto “restare appesi”), fino appunto qui a inabbissarsi e volteggiare senza gravità.

Se da una parte la trama si ingarbuglia sempre di più (che infatti abbiamo faticosamente cercato di restituire nelle descrizioni iniziali) e la sceneggiatura ha l’esigenza ancora più del solito di illustrare/riassumere/anticipare agli spettatori gli snodi del racconto, dall’altra questa “pesantezza” del racconto si ribalta in una leggerezza del corpo. È qui quindi il nodo.

C’è uno slancio profondo che attraversa questo film, e forse tutta la serie Mission: Impossible, che è il gusto per il movimento. Vengono in mente le pagine che Deleuze dedica alla scuola francese dell’Impressionismo, il luogo in cui la composizione organica del cinema americano griffithiano è superata da una «quantità di movimento» (2016, p. 115), da «una composizione meccanica delle immagini-movimento» (ivi, p. 117). È la grande operazione di sovvertimento, dall’interno, delle forme che questo ultimo film di Cruise in maniera lucida mette in atto. Il meccanismo tragico dell’eroe e della responsabilità della sua azione (è questo il capitolo in cui Ethan si trova a dover affrontare le conseguenze di tutte le sue azioni, come gli ricorda il Presidente degli Stati Uniti all’inizio della storia) è messo in scacco dal rovesciamento operato appunto dall’astrazione dello slapstick.

È come se all’interno di una struttura di genere, ancora di più seriale, totalmente integrata in un sistema narrativo forte, il film se ne liberasse con gli stessi movimenti “coreutici” di Ethan. E non è quindi a caso se il consueto paesaggio urbano (spazio civilizzato, riconoscibile, “striato”) in cui si è sempre mosso Ethan lasci ora il posto allo “spazio liscio”, astratto del mare e dell’aria. La presenza dell’acqua prima e dell’aria poi affrancano il movimento da ogni finalità narrativa per farsi «forma di quanto non possiede consistenza organica» (ivi, p. 122). È qui che il film si fa discorso sul cinema, «ciò che essa è già di per sé è movimento, puro movimento» (ivi, p. 124). L’unico vero antidoto, inattuale, all’immaterialità digitale dell’AI.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.

Mission: Impossible – The Final Reckoning. Regia: Christopher McQuarrie; sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Erik Jendresen; fotografia: Fraser Taggart; montaggio: Eddie Hamilton; musiche: Max Aruj, Alfie Godfrey; produzione: Paramount Pictures, Skydance Media, TC Productions; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 170′; anno: 2025.

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