Sei pareti per Rotella. Sei muri in cui il manifesto strappato ritorna al suo luogo originario, al suo spazio naturale, seppur simulato, nella grande sala della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Si, perché la forza della mostra Mimmo Rotella Manifesto, curata da Germano Celant e Antonella Soldaini (visibile nel museo romano fino al 10 febbraio), risiede proprio nell’idea allestitiva. In qualche modo le decine di opere che coprono un ampio arco cronologico – in pratica tutta la produzione dell’artista – ritornano ciò che erano prima di essere decontestualizzate, ovvero poster, affiches, frammenti e residui di manifesto. Il parallelo, in teoria, potrebbe anche essere fatto con le quadrerie seicentesche, ma è più evidente e calzante la volontà di far rivivere la strada, creando una sorta di immensa piazza, dove le opere possano ritornare a vivere con una immediatezza e una freschezza straordinarie. Opere di vario formato (dal micro al macro) che si incastrano le une con le altre. E nella brochure che accompagna l’esposizione la dicitura riportata non lascia dubbi: “Salone-piazza”.

Si parte dagli assemblages e dai décollages realizzati tra il 1953 e il 1964, passando per i Retro d’affiches (1953-1961), forse meno conosciuti e più vicini alla cultura visiva informale, proseguendo con i riporti e le emulsioni fotografiche su tela (1963-1980) appaiati agli Artypos (1966-1974), giungendo poi – nella seconda metà della sala –, alle opere che vanno dal 1980 fino al 2004: la serie dei Blanks, gli acrilici, le sovrapitture e le Nuove icone, quando Rotella – ormai sul finire della sua carriera – ripensa per l’ennesima volta il concetto di manifesto e la tecnica della creazione per “sottrazione”.

Varrebbe forse la pena anche di soffermarsi sul termine “manifesto”, inteso non solo come forma di comunicazione visiva, ma anche come strumento teorico e politico: del resto i manifesti hanno avuto nella storia dell’arte, soprattutto nella stagione delle avanguardie, una funzione fondamentale di riflessione critica ed estetica. E la stessa arte di Rotella può essere intesa come un’arte-manifesto, soprattutto per il rapporto che instaura con l’esistenza, come dato (auto)biografico e come dimensione del reale da cui appunto preleva continuamente i materiali-segni alla base della sua opera.

Nel vedere tutte le evoluzioni cronologiche dell’immaginario rotelliano in un unico colpo d’occhio, nel poter abbracciare mezzo secolo di arte italiana vissuta da un unico artefice nello spazio di una piazza virtuale, si resta senza parole. Sopraffatti dalla potenza visiva e dall’apologia di una texture sospesa tra figurazione e astrazione, colore e decolorazione. In questo senso Mimmo Rotella Manifesto più che una mostra si avvicina maggiormente a una partitura musicale, a una sinfonia fatta di pieni e di vuoti, di battute e pause, di immagini e interstizi tra le immagini, secondo un’estetica del décadrage. I quadri-manifesti, sottratti alla città e alla strada, ritornano idealmente nel luogo che li ha generati: il muro. Non spazio museale, dunque, in cui le opere vivono nella loro singolarità, ma piuttosto materia viva che sconfina dalla cornice e acquista senso nella logica dell’insieme.

Se oggi la Street Art porta l’arte nella strada, 65 anni fa Rotella ha invece portato la strada nei templi dell’arte. L’operazione di Celant-Soldaini, pienamente riuscita, è dunque quella di creare una mostra ritrasformando l’opera rotelliana in segno urbano, in graffito. Ed è per questa ragione che è difficile isolare singole opere, seppure ve ne siano di famose, come la Marilyn; più facile è apprezzare le pareti nella loro interezza, secondo un’articolazione spazio-temporale che, tuttavia, didatticamente, mostra i mutamenti e gli sviluppi di stilemi e procedimenti. Il Rotella “informale” che ha esercitato il suo tocco sulla parte posteriore dei manifesti, diventa così nella seconda parete della sala una non macchia cromatica, come una pausa musicale tra altre due macchie di colore delle sue serie decisamente “pop”.

Dalla parte opposta della sala, invece, i Blanks rappresentano quei momenti di vuoto dell’immagine, quelle pause musicali di cui parlavamo in precedenza, pezzi di carta applicati da Rotella per eliminare figure e colori, facendo emergere il fondo bianco; di cosa? Dello schermo cinematografico. Perché se Rotella preleva dalla realtà manifesti di vario tipo, spesso pubblicitari (dal Punt e Mes o al brodo Star), i cartelloni cinematografici prevalgono tra gli altri, per la loro capacità evocativa.

Il discorso sul cinema come immaginario paratestuale e residuale, attraversa tutta l’opera rotelliana. Il cinema come macchina generatrice di icone, divi e generi, che riverbera la sua potenza mitopoietica oltre lo schermo. Il cinema, attraverso le opere di Rotella, è la proiezione (nel senso psicanalitico del termine) di un sogno filtrata attraverso il segno. Rotella è uno dei pochi artisti italiani che non ha mai utilizzato le immagini in movimento, pur avendo progettato un film sugli anni di piombo rimasto sulla carta, proprio perché totalmente già immerso in un flusso visivo che non aveva alcun bisogno di diventare – pleonasticamente – audiovisivo.

E il cinema come arte di esercitare lo sguardo, ritorna in qualche modo anche nella serie di sculture, chiamate Replicanti, allestite nella saletta all’estremità della mostra: si tratta di variazioni della medesima testa umana, plastificata e stilizzata come una moderna scultura negra o come un complemento di design: tutte le teste hanno a corredo futuristici visori o singolari occhiali, che li rendono tanti spettatori seriali che, idealmente, volgono il loro sguardo ai manifesti dell’artista calabrese.

A completamento dell’esposizione vi sono una serie di materiali (anche molto rari) custoditi in teche disposte nel salone, una documentazione (libri, cataloghi, brochure, foto e altre sue opere) che arricchisce ancora di più l’universo già psichedelico di Rotella. Un universo post-moderno dove il frammento, che si materializza sotto forma di strappi e incollature, ritagli e sovrapposizioni, ci ricorda quanto Rotella, indipendentemente dal contesto più internazionale del nouveau réalisme, abbia operato una profonda riflessione sull’arte e sulla sua dimensione meta-pittorica, al pari di Burri e Fontana.

Riferimenti bibliografici
G. Celant, Antonello Soldaini, a cura di, Mimmo Rotella Manifesto, catalogo della mostra – Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Silvana Editoriale, Milano 2018.
M. Rotella, Anni di piombo, Abscondita, Milano 2012.
Id., Autoreotella. Autobiografia di un artista, PostmediaBooks, Milano 2011.

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