Quando varchiamo la soglia di Martin Parr. Short and Sweet veniamo accolti da una fotografia a formato gigante: un simpatico ometto in posa sfoggia una camicia hawaiiana dal sapore kitsch; è immerso in un ambiente altrettanto bizzarro che, se osservato più da vicino, ha un nonsoché di dozzinale. I colori saturi esplodono davanti ai nostri occhi, occhi che incontrano quelli del personaggio, che ci guarda con fare serio: la sua compostezza stride con la stramba scenografia fatta di capitelli di fattura industriale e di fiori in plastica, incorniciata da un tendaggio che alimenta il gusto teatrale dell’intera messinscena. Questa fotografia – parte della serie Autoportrait (2000) – pone lo spettatore davanti al soggetto che, nel campo fotografico, risulta essere il più assente: il fotografo stesso. È Martin Parr ad accoglierci nella sua mostra, ospitata negli spazi di Mudec Photo di Milano dal 10 febbraio e conclusasi il 28 luglio 2024. Ma il suo sguardo ci dice molto di più. Ci domanda: questo è il mondo che il mio occhio ha immortalato, credi davvero di non farne parte?

Ma perché dovremmo sentirci a disagio nel renderci conto di essere, nostro malgrado, parte dei microcosmi fotografati di Parr? Colin Jacobson aveva detto di lui: Parr è «un critico sociale gratuitamente crudele che ha fatto un mucchio di soldi beffeggiando le debolezze e le aspirazioni di altra gente» (Williams 2002, p. 275). E per “altra gente”, Jacobson intendeva proprio noi, osservatori delle opere fotografiche di Parr che, nonostante la diversità che ci accomuna, non possiamo fare a meno di ritrovare un po’ del nostro vissuto all’interno degli scatti del fotografo britannico. Quanti, almeno una volta, non hanno cercato di “reggere” la Torre di Pisa, o quanto meno visto altri compiere quel gesto che pare così assurdo se osservato da una prospettiva differente? E quanti non hanno ritrovato, nella serie Common Sense (1995-99), un oggetto di largo consumo acquistato per noia o un pranzo al fast-food consumato durante quelle lontane vacanze estive?

Guardiamo le foto di Parr, percorrendo gli spazi della mostra Short and Sweet, e ci accorgiamo che sì, forse facciamo davvero parte di quel mondo che il fotografo britannico ha eternato con un semplice clic: facciamo parte del turismo di massa, dei riti collettivi, del consumismo e degli sprechi alimentari, di un mondo che si sta congedando dal passato e che oramai ci ha inglobato in quell’inarrestabile processo di massificazione e globalizzazione. 

Allora forse proviamo una certa forma di disagio quando ci sentiamo parte di quel mondo che Parr ha immortalato nel corso della sua carriera. Ci sentiamo vittime di quel cinismo e sarcasmo che esplodono nei colori ipersaturi che hanno connotato la fase più saliente della sua produzione. Ma il percorso pensato da Parr non presuppone un’obbligata identificazione del visitatore con i soggetti presenti nelle fotografie: Short and Sweet si configura come un’immersione nelle varie stagioni che hanno svolto un ruolo decisivo nella sua carriera. Il percorso espositivo viene accompagnato dalla voce dello stesso Parr: il suo viso compare su un piccolo schermo, sentiamo la sua voce che risponde alle domande della storica e critica della fotografia Roberta Valtorta, e possiamo scegliere di accomodarci su una delle sdraie variopinte, dal gusto retrò, messe a disposizione davanti allo schermo.

I nove ambienti che si snodano negli spazi di Mudec Photo, allestiti secondo un criterio cronologico, mostrano come Parr sia stato capace di passare al pettine il nostro modo di vivere, trasformando in commedia il cibo che mangiamo, i vestiti che indossiamo e i posti che visitiamo (ivi, p. 1). Il suo “occhio artificiale” ha registrato fin dagli esordi la “realtà reale”, spingendosi in direzione ostinata e contraria rispetto al canone vigente nella sua patria, il Regno Unito, che al tempo dei suoi primi scatti limitava la fotografia ai soli campi della moda, della pubblicità e del fotogiornalismo. Agli inizi della sua formazione presso il Polytechnic di Manchester, si lascia stimolare dalle principali esposizioni londinesi del periodo – Henri Cartier-Bresson al Victoria and Albert Museum, nel 1968, e Bill Brandt nel 1970 alla Hayward Gallery – scegliendo di inserirsi nell’anomalia, nella piega che metteva a soqquadro l’establishment artistico e museale che, di contrasto, emarginava la fotografia e la escludeva dai mezzi riconosciuti di espressione creativa (ivi, p. 3).

Continuiamo a passeggiare, con il capo leggermente alzato, e nonostante le fotografie di questo critico sociale gratuitamente crudele ci spingano a sentirci “umiliati e offesi”, ci lasciamo volentieri canzonare dal suo sguardo spiritoso e satirico: riconosciamo oggetti del nostro quotidiano o del nostro passato, ritroviamo le nostre critiche al turismo di massa (che recentemente sta animando il dibattito pubblico: si pensi alle proteste dei residenti di Barcellona o di Venezia) materializzate in uno scatto che mostra una folla di visitatori in fila per farsi scattare una fotografia insieme alla celebre salamandra del Parc Güell; sorridiamo dinnanzi a un gruppo di persone intente a produrre una miriade di selfie, cercando di carpire non tanto l’essenza del luogo nel quale si trovano, bensì il loro profilo migliore.

Mentre percorriamo la mostra, i frammenti di Small World (1989-2008) e The Last Resort (1982-85), di Common Sense e Life’s a Beach (2013) ci permettono di osservare, attraverso il linguaggio del fotografo, un mondo contraddittorio narrato attraverso una cronaca tagliente e priva di orpelli. L’inedito sguardo documentario del fotografo britannico ha saputo cogliere ciò che noi, temiamo di più: l’ordinario. Non a tutti piace essere consapevoli attori di un mondo non-straordinaio, e Parr, attraverso il suo sguardo irriverente, non solo ci mostra come ci sforziamo per diventare parte di una sorta di “fiera delle vanità” della società contemporanea, ma anche come cerchiamo di uscire da quell’ordinario che ci terrorizza, ad esempio attraverso una vacanza, un pranzo fuori casa, un oggetto non necessario che ci consente, tuttavia, di aggiungere dello straordinario al nostro ordinario (ivi, p. 276). In questo senso, nonostante lontane dalla spontaneità degli scatti che l’hanno reso celebre, le modelle immortalate nella serie Fashion (1999-2019) – presenti nell’ultima sala della mostra – incarnano quello scontro fra le aspettative e le ambizioni della “gente comune” e la cruda realtà che connota l’industria della moda, intesa come mondo fuori dal consueto.

Le fotografie di Parr arpionano la vita: l’afferrano, la fanno sanguinare e ne mostrano i sogni infranti, i nuovi miti generati dal capitalismo, i disperati tentativi di interrompere il flusso dell’ordinarietà. Sono fotografie che, tuttavia, non nascondono una velata malinconia provata nei confronti del mondo che c’era e che ritroviamo, nel percorso espositivo, nelle serie The Non-Conformists (1975-1980) e Bad Weather (1982). I riti passati vengono fagocitati dalla società di massa e tramutati in una vita devota al consumismo e all’esigenza di smarcarsi dall’anonimato. Il grottesco, che si mostra attraverso i colori saturi “alla Parr”, convive con la nostalgia verso la cultura popolare.

Quando usciamo da Short and Sweet, basta recarsi in Piazza Duomo, a Milano, per comprendere come il mondo di Parr si estenda oltre i limiti della fotografia intesa come superficie materiale. Allora ci sentiamo più indulgenti verso questo critico sociale gratuitamente crudele. Forse, ritornando nelle nostre case, iniziamo a pensare alla mostra Short and Sweet, e allora apriamo la galleria fotografica del nostro smartphone per scegliere quali scatti destinare al nostro pubblico dei social media. È in quel preciso istante che ci sentiamo, allora, cittadini (consapevoli) dell’universo di Martin Parr.

Riferimenti bibliografici
V. Williams, Martin Parr, Contrasto, Roma 2002,

Martin Parr. Short and Sweet, a cura di Martin Parr, con la collaborazione di Magnum Photos; Mudec – Museo delle Culture di Milano, 10 febbraio 2024 – 28 luglio 2024.

Tags     Martin Parr, Mudec
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