L’11 aprile del 1945 i militari dell’89esima divisione fanteria della terza armata degli Stati Uniti entrano nel campo di concentramento di Buchenwald. Sconvolto dall’orrore che si spalanca davanti ai suoi occhi, il generale George S. Patton ordina di far portare lì i civili della vicina città di Weimar costringendoli a camminare accanto ai cadaveri disposti lungo i bordi delle strade, alle fosse comuni, così come alle pile di cadaveri abbandonati vicino ai forni crematori, affinché potessero guardare da vicino gli atroci crimini che erano stati commessi, a poche miglia dalle loro case, anche grazie alla loro indifferenza. Margaret Bourke-White entra nel campo insieme alla divisione del generale Patton e realizza un reportage che verrà in seguito pubblicato il 7 maggio sulle pagine di “Life”, la celebre rivista il cui intento, nelle parole del suo fondatore Henry R. Luce, è quello di «vedere la vita».

In una delle immagini scattate dalla fotografa statunitense vediamo una giovane donna procedere seguendo il percorso stabilito dai militari: in primo piano, a destra della foto, corpi ammassati in attesa di sepoltura; la donna cammina ma si copre gli occhi con una mano, non vuole guardare – o forse vuole continuare a non vedere; sullo sfondo, altri cittadini procedono seguendo lo stesso percorso degli orrori sotto la sorveglianza di un gruppo di soldati. La foto ci racconta certo di quella volontà di non vedere che ha facilitato il progetto di disimmaginazione, di offuscare l’universo concentrazionario rendendolo inimmaginabile; allo stesso tempo la foto sembra articolare drammaticamente il paradosso dell’immaginabile che reclama il suo essersi fatto immagine.

Il tema è estremamente complesso e di certo eccede il tentativo di parlare del lavoro di Margaret Bourke-White così come viene ricostruito all’interno della mostra curata da Monica Poggi Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960, attualmente esposta a Camera Torino. E tuttavia, c’è un punto sul quale mi sembra importante tornare. Nel racconto del suo arrivo a Buchenwald, la fotografa scrive che, nel trovarsi di fronte “all’inconcepibile” – all’inimmaginabile, appunto – del campo di concentramento, la sua macchina fotografica – la possibilità insomma di realizzare un’immagine fotografica dell’evento – è stata un “sollievo”: «Inseriva una barriera sottile tra me e l’orrore che avevo di fronte». Ed è proprio in questa “distanza” che si può tracciare la peculiarità dell’opera di Margaret Bourke-White. Una distanza che è soprattutto una scelta metodologica, che si esprime per esempio sin dagli strumenti di lavoro utilizzati: sebbene le macchine fotografiche Leica ed Ermanox costituivano la strumentazione più comune tra fotografi che lavoravano nel mondo dell’editoria proprio per la loro leggerezza e maneggevolezza, la Bourke-White preferiva il medio e grande formato; all’avvicinamento all’azione preferiva l’uso del cavalletto; all’istante decisivo, frutto di combinazioni fortuite e/o episodiche, contrapponeva l’utilizzo di flash e luci artificiali, alla naturalezza delle azioni quotidiane preferiva la costruzione della posa. Una distanza che oggi è anche principio di precauzione per chi ri-guarda quelle immagini, così come segnalano alcuni cartelli presenti all’interno del percorso espositivo. Ma procediamo con ordine e facciamo prima di tutto un passo indietro.

Margaret Bourke-White inizia a fotografare durante il suo primo anno di studio alla Columbia, dove segue un corso di “Design e composizioni applicati alla fotografia”: è qui che viene a contatto con i principali esponenti della Straight Photography e delle idee moderniste in campo fotografico, influenze che avranno una ricaduta fondamentale sul suo lavoro di fotografa. Finito il college parte per Cleveland dove, non senza grandi difficoltà, fotografa l’interno delle acciaierie Otis. Le sue foto vengono scelte per una pubblicazione da regalare agli azionisti delle acciaierie, ma arrivano anche tra le mani di Luce: tra i due inizia una collaborazione duratura prima con “Fortune” e poi con il celebre “Life”. È infatti di Margaret Bourke-White la copertina del primo numero della rivista: il soggetto è la diga del Fort Peck, in Montana, un progetto della Public Work Administrations a quel tempo ancora in corso di realizzazione, ma che permette a Bourke-White di continuare a confrontarsi con uno dei suoi temi preferiti, le architetture industriali. Il lavoro di Bourke-White sembra essere una sintesi di forme e formule fotografiche differenti: dalla già citata Straight Photography alle fotografie di Paul Strand e Alfred Stieglitz e alla Nuova Oggettività di Albert Renger-Patzsch; ma le immagini di New York realizzate dal Chrysler Building, così come le foto dall’alto degli uomini che immortalati sulla 36esima strada sembrano appartenere a un film di Vidor. Quando nei primi anni ’30 si reca in Russia – è Ejzenštejn a farle ottenere il visto grazie a una lettera di presentazione scritta dopo aver visto le sue fotografie – la fotografa sembra fare proprie le soluzioni stilistiche delle avanguardie sovietiche, così come le forme compositive del cinema di Ejzenštejn.

Nell’osservare gli scatti di Bourke-White è possibile individuare una distanza che è prima di tutto fisica, oltre che metodologica: se nelle immagini che raccontano il paesaggio industriale – rappresentato secondo regole geometriche e lineari – l’essere umano è ridotto a pura presenza casuale – spesso irriconoscibile, come nel caso dei due uomini accanto alla diga di Fort Peck – le fotografie dall’alto, e con maggiore forza le vedute aeree, mostrano una volontà di fotografare il tutto, la collettività a discapito dell’individuo. Una distanza fisica che certo si assottiglia nell’incontro con i contadini degli Stati Uniti del Sud – incontro che avrà come esito il libro You Have Seen Their Faces (1937), realizzato insieme a Erskine Caldwell – ma che tuttavia non si tradurrà in una fotografia “immediata” – se non in alcuni casi, come nel corso di una manifestazione a Tokyo in cui la fotografa, trovandosi in mezzo agli scontri, dovette ricorrere alle tascabili abbandonando il cavalletto – ma sempre oggetto di una costruzione minuziosa.

Non si vuole certo condannare il lavoro di Margaret Bourke-White a una mancanza di empatia: nel raccontare gli orrori del mondo, Bourke-White ha assunto una prospettiva rigorosa che difficilmente si è abbandonata a forme di semplice drammatizzazione e spettacolarizzazione del dolore, costringendo in questo senso lo spettatore ad andare oltre il facile trasporto emotivo che satura ogni possibilità di comprensione dell’evento. Dagli scatti realizzati durante l’avanzata degli alleati nell’Italia Meridionale fino ai massacri della popolazione hindu per le strade di Calcutta, passando per le foto dei resti di corpi carbonizzati nei forni di Buchenwald, il lavoro di Margaret Bourke-White si è prodotto, insomma, come il tentativo di ripensare la distanza necessaria tra testimonianza emotiva e architettura composta del tragico, tra etica ed estetica, nello sforzo costante di non capovolgere mai i valori dell’equazione. Ed è in questo senso, allora, che è possibile leggere l’avvertimento che viene rivolto a noi spettatori mentre attraversiamo le stanze dell’esposizione: le immagini che seguono sono molto forti. Come dire: siete disposti a vedere ciò che davvero state guardando? Le fotografie di Margaret Bourke-White ci impongono l’adozione di uno sguardo critico e consapevole: possiamo scegliere di voler vedere oppure, possiamo coprirci gli occhi e decidere di non guardare.

Riferimenti bibliografici
W. Guadagnini, M. Poggi, Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960, Dario Cimelli Editore, Milano 2024.

Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960, a cura di Monica Poggi, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, Torino, 14 giugno – 6 ottobre 2024.

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