È ancora in corso a Roma, presso il museo dell’Ara Pacis, Marcello Mastroianni, la mostra dedicata al «divo dallo stile sommesso» (“Il Sole 24 ore”). La scarna semplicità del titolo, privo di sottotitolo e composto unicamente del nome e del cognome dell’attore, rivela in nuce le parole chiave che hanno ispirato il lavoro del curatore Gianluca Farinelli: intimità e familiarità, ovvero due delle caratteristiche che, assieme al fascino di una virilità più europea che latina, hanno contribuito a fare di Mastroianni una delle icone del cinema del Novecento.
Come si evince anche dalla confessione raccolta in Mi ricordo, sì, io mi ricordo (Tatò, 1997), le cui immagini accolgono il visitatore all’ingresso dell’esposizione, nei suoi rapporti con i media Mastroianni ha sempre cercato di distruggere l’etichetta del latin lover, facendo invece emergere piuttosto l’immagine di italiano qualunque, più sedotto che seduttore e più affascinato (dalla vita, dalle donne) che affascinante. La retorica dell’antidivismo, scolpita come un segno distintivo nelle personae di quasi tutti i nostri attori, si sposa perfettamente con una biografia – quella qui ricostruita attraverso fotografie, lettere, costumi e rari cimeli di famiglia – che contempla uno dei cliché più presenti nelle narrazioni divistiche, ovvero la celebrità come punto di arrivo di un percorso umile e faticoso: da Fontana Liri a Hollywood, dall’apprendistato con Paolo Stoppa e Luchino Visconti al successo planetario con Fellini.
«Non siamo come lui – direbbe Edgar Morin –, ma potremmo esserlo». Potremmo (o meglio, avremmo potuto) esserlo perché l’atout indubbiamente più seducente dell’attore – ciò che lo ha reso negli anni sessanta il performer più richiesto dal nostro cinema d’autore – è stata la sua capacità di incarnare meglio di altri la maschilità del suo tempo, quello dell’Italia del boom. Una maschilità immatura, indolente e incapace di stabilire un rapporto autentico e adulto con il mondo femminile. Lontanissimi dal canone di fermezza e severità rappresentato da breadwinner quali Raf Vallone o Massimo Girotti, l’ex-vitellone irrisolto (La dolce vita, Fellini, 1960) e l’ingegnere suicida (Break-up, Ferreri, 1965), per citare solo due delle maschere più tragicomiche tra quelle indossate dall’attore, errano in spazi urbani e mentali senza agire né reagire, attratti da situazioni ottiche e sonore – come il sorriso di una ragazza sulla spiaggia (La dolce vita) o lo scoppio di un palloncino (Break-up) – che si imprimono sui loro sensi evidenziandone l’umanissima fragilità.
Nei loro recenti studi, Jacqueline Reich (2004) e Giulia Muggeo (2017) si sono concentrate in particolare sulla sinergia con Fellini e sulla produzione comica dell’attore, con particolare attenzione all’analisi della scrittura – e della riscrittura – di una delle immagini più stratificate tra quelle costruite dal nostro star system, ovvero il “latin lover suo malgrado”. Ma se, come ha affermato Gianluca Farinelli, Mastroianni è oggi «un attore da scoprire», questo si deve al fatto che molti dei lati di questo prisma sono ancora oscuri.Quasi per nulla, per esempio, è stato indagato il contributo che il divo ha offerto in termini di segno all’immaginario di quei cineasti che, a differenza di Fellini e De Sica, hanno lavorato sulla sua immagine in funzione anti-iconica, plasmando on screen il simulacro di un maschio non più levigato e depilato, ma – per citare il titolo di una commedia di Ettore Scola – brutto, sporco e cattivo. Sotto la direzione di Elio Petri, Marco Ferreri, Jacques Demy e Roman Polanski, infatti, il bel Marcello non recupera completamente la propria virilità, costantemente messa in crisi dal fantasma dell’impotenza (Casanova ’70, Monicelli, 1965), ma rivela per la prima volta la natura fisiologica di un corpo al contempo stellare e villoso, più femminile che maschile (Niente di grave, suo marito è incinto, Demy, 1973), imbruttito fuori (Dramma della gelosia [tutti i particolari in cronaca], Scola, 1970) e dentro (L’assassino, Petri, 1961). Elio Petri e Marco Ferreri sono forse gli autori che sono andati più lontano nella pratica del contre-emploi, confezionando per l’attore due maschere che rimettono in questione le certezze relative alla persona della star: il seduttore anaffettivo (L’assassino) e l’anarchico erotomane (Ciao maschio, 1978).
Coinvolto in una spirale giudiziaria di stampo kafkiano, l’antiquario di L’assassino presenta tratti psicologici (il cinismo mostrato dinanzi all’aspirante suicida nel finale) e comportamentali (l’indifferenza per la sofferenza dell’amante) non molto diversi da quelli evidenziati dai personaggi interpretati da Mastroianni per Fellini e Antonioni (La notte, 1961). Ciò che appare inedita, e per questo degna di interesse, è però l’accettazione consapevole, da parte del protagonista, della propria indole egoistica, tipica del lover cinico e disilluso: «Io posso fare l’amore con una donna senza sentirmi impegnato, senza impegnarla», confessa l’imputato durante l’interrogatorio al commissariato. Senza infrangere le regole del genere, Petri offre dunque una riflessione sullo statuto sociale del divo, indagato e processato per le stesse “virtù” che in fondo avevano sedotto Fellini e De Sica.
Ma interessante è anche la modalità con cui questo sguardo riconfigura il corpo del divo, il quale non è più – come in Fellini – erotizzato mediante primi piani o mezze figure raccordate sullo sguardo delle partner femminili, ma inserito in un flusso di immagini-tempo che ne rafforzano la natura mortale e terrena. E proprio la mortalità è al centro della decostruzione operata da Ferreri sulla carne “troppo umana” di un corpo che, da spettatore muto del dolore degli altri (Fellini), diventa attore della propria autodistruzione, ma soprattutto – e mi riferisco al Luigi di Ciao maschio – emblema di un fallimento maschile tanto individuale quanto sociale. Lavorando sul registro della confidenza, Ferreri ha teso al limite le potenzialità espressive di Mastroianni, filmandolo al contempo come natura e come metafora: corpo fisiologico mosso da pulsioni ancestrali (La grande abbuffata, 1973) e corpo simbolico, incarnazione della fine di un’ideologia (Ciao maschio).La spiaggia di Manhattan non ha nulla in comune con quella dove si chiude La dolce vita. Nel deserto urbano di questo dopostoria, infatti, non ci sono né dive hollywoodiane né ragazzine pure, ma la carcassa di un mito del cinema e una scimmietta da accudire. Poco importa, però, se al posto degli iconici sun glasses ora Mastroianni porti delle spesse lenti anti-miopia: la recitazione è ancora una volta una questione di re-acting. Anche Zurlini (Cronaca familiare, 1962) e Visconti (Lo straniero, 1967) utilizzano il primo piano di Mastroianni come reaction-shot, invitando l’attore a condensare in pochi secondi l’espressione di uno stato d’animo incerto tra l’angoscia e lo smarrimento. L’uomo che ascolta la lettura della sentenza durante il processo a suo carico (Lo straniero) e quello che riceve la notizia della morte del fratello (Cronaca familiare) indossano la stessa maschera: muscoli rigidi, labbra tese e sguardo rivolto verso un invisibile fuoricampo interiore.
Ferreri non fa altro che distruggere questa maschera, tendendola prima verso l’iperbole (gli occhi sgranati del cadavere in La grande abbuffata) e poi, in Ciao maschio, verso l’accettazione dolorosa della propria vulnerabilità. Luigi accoglie il piccolo scimpanzé tra le sue braccia ma l’allergia gli impedisce di mantenere a lungo il contatto, condannandolo a una solitudine assoluta. In una sola inquadratura, quella che documenta l’epifania di King Kong, Ferreri raccoglie dunque due miti del cinema – il bello e la bestia – evidenziandone rispettivamente l’agonia e la morte. Nella lunga intervista raccolta da Anna Maria Tatò, Mastroianni ha raccontato come il metodo di Ferreri fosse finalizzato a cogliere, nella recitazione, “momenti di verità, non scritti sul copione”.
Nel tremolio delle mani, nell’affanno della voce e nei gesti spezzati di questo ultimo maschio, rifiutato dalle donne e tradito dai propri sogni, emerge non solo la verità ma anche la disperata fragilità di un artista che, come ha confessato lo stesso Ferreri, “aveva un discorso interiore di fronte al nulla”. Il discorso di un sex symbol che ha paura della morte.
Riferimenti bibliografici
G. Carluccio, A. Minuz, Nel paese degli antidivi, in “Bianco e Nero”, n. 581, gennaio-aprile 2015.
E. Morin, I divi, Mondadori, Milano 1967.
G. Muggeo, Marcello Mastroianni. Echi e riscritture di un attore, Bonanno Editore, Roma 2017.
J. Reich, Beyond The Latin Lover. Marcello Mastroianni, Masculinity and Italian Cinema, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis 2004.
*Le immagini presenti nell’articolo e in copertina sono foto di Roberta D’Elia.