La forma film (monocanale) e la forma installazione (pluricanale) sono due diverse modalità di presentare e di fruire un’opera audiovisiva che vuole essere una riflessione sul pensiero artistico attraverso lo strumento del manifesto. I manifesti, dalle avanguardie in poi costituiscono un medium estetico-politico (“politicizzazione dell’arte vs estetizzazione della politica”, avrebbe detto Benjamin) per fondare una nuova visione del mondo. Così Julian Rosefeldt (nato a Monaco di Baviera nel 1965) nel suo Manifesto – che vede un’unica protagonista, Cate Blanchett, interpretare donne diverse in situazioni e contesti differenti – prova a narrativizzare un patchwork di decine e decine di testi (futuristi, surrealisti, situazionisti, minimalisti, pop, fluxus, spazialisti, ecc.), un cut-up verbale-concettuale applicato a luoghi e squarci della contemporaneità: dallo studio di un network a un interno domestico, dalla borsa a un sito di archeologia industriale, da un laboratorio a una sala di incisione. Film e installazione sono suddivisi in tredici episodi che, mostrati in sequenza temporale o visti simultaneamente in uno spazio museale, non mutano di sostanza ma solo di forma.
La prima impressione di fronte all’immaginario complessivo di Rosefeldt (vent’anni di immagini in movimento) è la ricchezza di dettagli, citazioni e riferimenti iconografici, l’accuratezza di una messa in scena che finisce spesso col diventare un saggio sul processo del fare cinema, sul set come luogo concreto e metaforico (“luogo comune” ma anche non-luogo) intriso di stereotipi, meccanismo di continue decontestualizzazioni, sovrapposizioni, contaminazioni di generi e spazi, come ad esempio in The Opening, dove la galleria in cui si svolge un vernissage si trasforma in una giostra rotante e, in un’altra versione della medesima installazione, in dispositivo pre-cinematografico. Quasi tutti i suoi film, “esposti” e non (oltre una ventina), sono costruiti su un’idea straniante di spazio finzionale: del resto Rosefeldt è architetto di formazione, anche se la passione per il cinema ha preso il sopravvento e nasce fin da ragazzino, quando frequentava la cineteca di Monaco diretta dal mitico Enno Patalas, nutrendosi di Buñuel, di Godard, di Antonioni, ma anche di Stan Brakhage.
Il cinema, dicevamo, come infinito serbatoio di cliché da decostruire: American Night (2009) pensato per cinque schermi mette in scena i topoi del western, attraverso alcune sequenze ricorrenti in questo genere (il saloon, il cowboy solitario o quelli accampati che dialogano intorno al falò, la donna in attesa, ecc.), con quei détournement di cui si parlava prima per cui un villaggio western abbandonato diventa improvvisamente, con l’atterraggio di un elicottero, il set di un film bellico; se Deep Gold (2013-2014) è una esplicita rilettura de L’Age d’or, capolavoro del cinema surrealista, The Swap (2015) parte da una classica situazione da gangster movie, lo scambio di valigette, per creare – con reiterazioni gestuali reali e non frutto di effetti digitali – bizzarre variazioni sul tema: l’elemento meccanico de-drammatizza la scena e rende comici i personaggi.
Il paesaggio assume spesso un ruolo importante nell’opera di Rosefeldt, da quello selvaggio di Requiem (2007) a quello distopico e post-atomico di In the Land of the Drought (2015-2017), ma è pur vero che il paesaggio culturale e politico è frutto di continue contaminazioni, come quando in una delle sequenze di American Night l’artista fonde la figura del cowboy del western con la dimensione romantica ed esistenziale dei quadri di Caspar David Friedrich. Ma le installazioni dell’artista, spesso, ci conducono dentro una dimensione claustrofobica, come nella Trilogy of Failure (2004-2005), composta da The Soundmaker, Stunned Man e The Perfectionist: protagonisti sono tre uomini che compiono rituali in spazi chiusi, raccontati attraverso una complessa architettura di gesti, suoni e movimenti di macchina.
Erano oltre dieci anni che domandavano a Rosefeldt di girare un lungometraggio, probabilmente perché tutti i lavori elencati hanno una chiara impostazione molto cinematografica, e alla fine l’occasione è arrivata con Manifesto. “Grazie alla Blanchett ho potuto introdurre un elemento guerrigliero, un fattore di sabotaggio nel mondo ‘commerciale’ del cinema, attirando un pubblico che non sarebbe mai andato a vedere un’opera del genere in un museo”. Queste sono le parole con cui Julian – ospite a Roma dell’accademia tedesca di Villa Massimo fino al prossimo giugno – ci ha raccontato la genesi di quest’opera, esposta da qualche settimana al Palazzo delle Esposizioni di Roma. L’installazione su 13 canali è stata allestita per la prima volta all’Australian Center for the Moving Image di Melbourne, dal momento che la Blanchett è australiana. I finanziamenti sono arrivati da un network televisivo, da un Film Board, da un festival di arte e anche da alcuni collezionisti che hanno acquistato dieci edizioni dell’opera (di cui quattro speciali) a scatola chiusa, ancor prima di realizzare il film, presentato poi in anteprima al Sundance.
La fruizione dell’opera anche nell’allestimento romano richiede due atteggiamenti diversi: o ci si concentra sul singolo schermo e si ascolta con cura il singolo testo, oppure si può vedere e ascoltare i tre canali nel loro insieme, immergendosi in una dimensione cacofonica in cui si mescolano le parole di Tzara, Soupault, Taut, Debord, Vertov, Gabo, Kandinsky, Aragon, von Trier, Herzog, Fontana, Oldenburg e tanti altri. La moltiplicazione della Blanchett in tredici personaggi molto diversi tra loro, per ceto sociale e culturale, che declamano frasi sull’arte e sull’esistenza, sul cinema e sull’architettura, può essere quasi vista come un’allucinazione, un miraggio (fata morgana), un sogno, una sala degli specchi, una galleria di quadri in movimento sospesi nello spazio in cui lo spettatore, frastornato, si perde. Manifesto mette in moto un corto-circuito narrativo-filosofico o, come ci ha detto sempre Rosefeldt, “un trip ipnotico visuale, che facilita la comprensione di testi complicati”.
E allora sì, Manifesto è opera anche politica. E non è un caso che Rosefeldt abbia inserito tra i tanti manifesti d’artista, anche quello del Partito Comunista di Marx ed Engels. Del resto, a proposito di come è stato accolto Manifesto in versione film, l’artista ci ha detto:
La cosa singolare è che ormai, ad ogni proiezione, viene letto in chiave anti-populista. Sono contento del significato politico che gli spettatori gli hanno attribuito, perché fin dall’inizio mi interessava capire se questi testi – scritti nell’arco di un secolo – fossero ancora attuali ai giorni nostri.
Lo sono, caro Rosefeldt, eccome.