A partire dai primi anni Duemila, si affaccia sulla scena cinematografia una giovane generazione di registi interessati a promuovere una tipologia di orrore innovativa per il panorama franco-belga. Pur essendo spesso confuso con l’analogo fenomeno della New French Extremity, l’idea di horror proposta da Alexandre Aja (Alta tensione, 2003), Pascal Laugier (Saint Ange, 2004), Fabrice Du Welz (Calvaire, 2004) e Xavier Gens (Frontiers – Ai confini dell’inferno, 2007) insiste molto sul protagonismo dei corpi, quale veicolo per accedere a paure profonde, viscerali.
Sono rappresentazioni crude ed esplicite della violenza, visioni cinefile che volgono lo sguardo verso i grandi slasher e splatter del passato, aggiornati secondo le mutate percezioni spettatoriali. Tra i nomi principali, Du Welz sembra essere il più interessato a evitare la sedimentazione di genere, allontanandosi già a partire dal secondo film (Vinyan, 2008) dai lidi specifici dell’horror, per ricercare una visione meno costretta, più personale, che abbracci l’idea della contaminazione dei generi.
Con Maldoror, dopo lo sfortunato Colt 45 (2014) e la parentesi statunitense di Message from the King (2016), il regista belga torna a lavorare con un genere di lunga tradizione cinematografica e letteraria: il polar, crasi tra il poliziesco e le atmosfere noir. Come da tradizione, l’investigazione sul killer-pedofilo soprannominato dai media “Mostro di Marcinelle”, che nell’arco di dieci anni ha sequestrato e violentato diverse bambine e adolescenti, è sfruttata per mostrare e parlare di altro. Strumento essenziale è il percorso evolutivo, di sconfitta o forse redenzione, del giovane gendarme Paul Chartier, che porterà a mettere in dubbio i confini tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra forze dell’ordine e criminali.
La componente detection è difatti strozzata fin da subito. Se in Zodiac (2007), di cui Maldoror sembra a tratti un doppio andato a pervertirsi, a marcire, Fincher tratta il fatto di cronaca nera secondo i codici (non classici) del giallo, forse facilitato dalla mancata attribuzione di un volto colpevole al “Killer dello Zodiaco”; Du Welz di contro orchestra un’investigazione che è prerogativa esclusiva del protagonista (e delle figure a lui satellite), che entra in dicotomia con il grado di consapevolezza dello spettatore, ben conscio dei volti e delle azioni che si celano dietro le sparizioni. L’investigazione e l’evoluzione di Chartier diventano così pretesto per esporre una visione del mondo, sul Belgio degli anni novanta, evidenziando i rapporti interpersonali che regolano la società e i meccanismi, e i fantasmi, di un sistema istituzionale corrotto.
L’attenzione è sui ritratti subculturali – come le comunità italiane stanziate in Belgio – e sulle loro pulsioni represse, aggressive, nascoste sotto la superficie, sull’orlo di esplodere in qualsiasi momento. Un aspetto centrale nella sua filmografia, soprattutto nella cosiddetta “Trilogia delle Ardenne” (Calvaire; The Lonely Hearts Killers; Adorazione), luogo che appare come un «crogiolo di solitudini, di frustrazioni, di regressioni sociali e culturali […] come una morsa che trattenga incontrollabili forze emotive» (Raga, p. 156). Spostata l’ambientazione, la Vallonia di Maldoror conserva questi aspetti caratterizzanti, nocivi, virali, fucina di tormenti e frustrazioni. Ne è un esempio la scena che apre il film, in cui Chartier, dopo aver riportato a casa un giovane proveniente da una famiglia problematica, sentite le urla sfonda la porta e in preda a una furia incontrollabile aggredisce il padre, come in una rissa da strada.
Aggressività e violenza sono aspetti vissuti con contraddizione dalla comunità descritta. È qualcosa di accettato, interiorizzato, anzi richiesto, rivendicato a gran voce quando la televisione comunica la cattura del criminale alla luce dei crimini compiuti, ma condannata in silenzio quando a presentarne i sintomi è un membro della propria famiglia, paradossalmente ostracizzato e rinnegato per “non aver agito”. Ed è sempre soltanto attraverso la violenza – accettata sì, ma se lontana, fuori dal proprio nucleo –, rinnegando i valori di giustizia legale e trasformandosi in un mostro portavoce della giustizia fai da te del popolo, che si può riottenere il rispetto, silenzioso, nascosto sotto un accenno di sorriso, della comunità che per gli stessi motivi si è indignata.
Il lavoro sull’aggressività repressa e sulla violenza esplicita rende Maldoror il film in cui Du Welz riesce meglio a coniugare efficacemente il polar con l’horror. La contaminazione è visibile non soltanto nella linea narrativa dedicata a Marc Dutroux e ai suoi complici – con scene che a volte scadono nel puro shock value, come una donna costretta a praticare una fellatio al piede decomposto del compagno –, ma anche in momenti che segnano la discesa negli inferi, nella perdizione (o forse nella ragione), del protagonista. Dall’aggressione da parte di un maiale nelle fogne, ripresa con una camera ravvicinata e agitata che trasforma l’animale in una figura orribile, deforme, quasi infernale. Ai momenti in cui Chartier si raffronta con il killer: il lamento spettrale che sembrerebbe provenire da dietro la parete di un lercio scantinato – dove lo stesso spettatore è portato a domandarsi se l’abbia davvero sentito –; oppure l’incontro finale in cui l’orrore dei volti, degli sguardi ormai deformati, di un pedofilo protetto dal potere e di un gendarme dannato, sono resi tramite movimenti di macchina e zoom di fulciana memoria.
Al netto delle imperfezioni, siamo forse di fronte all’opera più completa e matura realizzata da Du Welz, ora nel trattare i soliti temi ricorrenti ora nel lavoro di contaminazione dei generi (l’horror e il polar), diventato nel tempo un peculiare tratto identificativo del suo fare cinema. Il principale pregio di Maldoror è quindi quello di eludere la costrizione a un’unica personalità, a un’unica identità, con un occhio al passato e uno al presente, permettendogli di sentirsi libero di essere un film d’autore di (sui) generi(s).
Riferimenti bibliografici
M. Raga, Fabrice Du Welz, in F. Zanello, a cura di, Frontiers. Il cinema horror franco-belga degli anni zero, Shatter Edizioni, 2020.
Maldoror. Regia: Fabrice du Welz; sceneggiatura: Domenico La Porta, Fabrice du Welz; fotografia: Maxine Heraud; montaggio: Nico Leunen; musiche: Vincent Cahay; interpreti: Anthony Bajon, Alba Gaïa Bellugi, Alexis Manenti, Sergi López, Laurent Lucas, David Murgia, Béatrice Dalle, Lubna Azabal, Jackie Berroyer, Mélanie Doutey, Félix Maritaud; produzione: Frakas Productions, The Jokers Films; origine: Belgio, Francia; durata: 155’; anno: 2024.