di FRANCESCA PELLEGRINO
Malcolm & Marie di Sam Levinson.
Quanto dura l’amore? Fino a che punto l’intensità di un sentimento può dirsi inalterabile di fronte allo scorrere del tempo e all’incostanza del desiderio? Qual è il destino del Due che pretende di essere per sempre, ma ogni giorno si scontra con la possibilità della sua stessa fine? Malcolm & Marie – scritto da Sam Levinson (Euphoria, 2019), girato con due soli attori e in un’unica location mentre il mondo sperimentava il suo primo lockdown, e ora disponibile su Netflix – è il racconto, drammatico e tuttavia romantico, di una tormentata, folle, e proprio per questo grande, storia d’amore. Un duello sentimentale, una spietata arringa a due voci, una battaglia tra un uomo e una giovane donna legati visceralmente eppure incapaci di comprendersi fino in fondo. Il film è dunque una riflessione sulle dinamiche e sulle distorsioni interne al rapporto di coppia, sull’andamento altalenante delle relazioni, che sviluppandosi in una durata necessitano, di tanto in tanto, di una rivitalizzazione; di un rinnovamento che passa attraverso la reiterazione della promessa e dell’impegno iniziali, ma anche per il confronto schietto volto a sciogliere i nodi e a dire i non-detti da cui tensioni e criticità traggono origine.
Nell’era di una sempre più rapida e preoccupante liquefazione dei legami affettivi, l’amore come evento, costruzione di una verità inedita sul mondo, ed esperienza di quel mondo dal punto di vista della differenza, fatica ormai a concretizzarsi. Prevalentemente orientate al consumo seriale di corpi “senza nome”, spesso impiantate sul gioco perverso della sopraffazione e del declassamento, e perciò sganciate dal proposito di stabilire una reale connessione con l’Altro, le forme contemporanee dello stare insieme incoraggiano, infatti, la demonizzazione dell’intimità rendendola “estranea”. Ma se da un lato oggi è difficile tessere relazioni significative, altrettanto complicato è portare avanti quelle già consolidate. Preservare la magia dell’inizio, saper riconoscere il nuovo nello stesso, guardarsi ancora come per la prima volta, è questa la responsabilità degli amanti. Ed è questa la sfida che sono appunto chiamati ad affrontare Malcolm (John David Washington) e Marie (Zendaya), giocatori di un “finale di partita” così sentito da farsi, oltre che cinema, anche vita.
Lo spazio d’azione è quello privato dell’elegante villa hollywoodiana con giardino e pareti vetrate in cui, nell’incipit, i due fanno ritorno. Attraverso un lungo piano-sequenza, Levinson ci introduce in casa e ci invita a “spiare” i suoi protagonisti. Malcolm indossa uno smoking, è euforico, balla sulle note di James Brown e sorseggia un drink. Marie è invece silenziosa, stretta in un abito glitterato va in bagno a fare pipì, prepara da mangiare, poi fuma una sigaretta. Dall’esterno, la macchina da presa li segue; “ondeggiando” da destra verso sinistra, e da sinistra verso destra, rivela la felicità incontenibile dell’uno mentre capta il nervosismo velato dell’altra. Lui è un regista in erba, lei la musa ispiratrice dell’opera prima che lo ha appena consacrato al grande pubblico. Lui ha il culto di sé, è critico ma detesta le critiche, che si tratti di quelle mosse da giornalisti caucasici e ignoranti o dalla bellissima e invidiabile fidanzata, che ha però dimenticato di ringraziare alla première del film. Pertanto, la situazione degenera proprio quando Marie rompe il silenzio per esternare tutto il suo disappunto in merito all’irriverenza del compagno.
Laddove allora i toni festosi si inaspriscono, e il ritmo della narrazione impazza modulandosi sul battito cardiaco dei personaggi inferociti, il perimetro dell’abitazione si configura come un doppio simbolico dei rispettivi microcosmi interiori. Non a caso, nonostante i loro movimenti erratici e divergenti, le scelte registiche risultano funzionali a garantire sempre la visibilità di entrambi, costruendo percorsi labirintici e circolari, e in una logica che eccede la mera prospettiva spettatoriale. La trasparenza – resa dal bianco e nero perfettamente contrastato della fotografia di Marcell Rév, e da tecniche di ripresa studiate per sfruttare al meglio la composizione scenografica – è, dal punto di vista drammaturgico, l’esposizione continua di Malcolm a Marie e viceversa. È un’“imposizione”, che si attua per mezzo di complessi giochi prospettici, e un’esigenza. Perché solo affrontandosi e guardandosi dentro, ciascuno dentro di sé e dentro l’Altro, essi potranno (forse) ri-vedersi, r-incontrarsi, ri-conoscersi. Sullo schermo e nella realtà, quando l’amore non basta più all’amore, l’esposizione come messa a nudo di un Io al cospetto di un’alterità a sua volta nuda – valorizzazione di una disgiunzione ed evidenziazione di una differenza – ha difatti un ruolo decisivo: fisica e anzitutto verbale, nella relazione tra due soggettività, l’esposizione fa sì che queste restino, seppur vicine, distinte, ugualmente e ben riconoscibili, irriducibili ad una.
La violenza dello scontro, nel racconto di Levinson, è dunque il frutto di una radicata tendenza delle parti al rifiuto di quel sano e reciproco esporsi che, in ogni storia, rende possibile la comprensione, l’accettazione e il superamento della crisi, e di conseguenza apre la strada al perdono e alla fiduciosa riaffermazione del sentimento originario. Il fatto che Malcolm e Marie trascorrano l’intera notte a parlare esponendosi senza sosta e senza remore è, in qualche modo, il grande paradosso su cui il film si regge. Le accuse e le aspre recriminazioni (che si alternano, in un circolo vizioso, ad effusioni e fugaci momenti di tenerezza) in verità non sono altro che il segno di un’assenza di comunicazione e di un’indisponibilità al confronto preesistenti e ordinarie. Il narcisismo accecante dell’uomo (per il quale, secondo la ragazza, questi non ha mai pensato di chiedersi “come divento un compagno migliore?” dando per scontata la sua presenza) e, d’altro canto, l’auto-svalutazione e l’inquieta richiesta di conferme della donna che non le consentono né di amare né di accogliere il bene (Marie è un’ex tossica e un’attrice frustrata “incapace di immaginare che ci sia qualcuno sul pianeta Terra che la ama e basta”), hanno silenziosamente logorato il legame fino a trasformarlo in un’unione simbiotica.
Ebbene, in qualità di sua variante patologica, fondata sulla pretesa illusoria e di natura egoistica di una riduzione elusiva del Due in Uno, la simbiosi è nemica dell’amore ed ha piuttosto a che fare col bisogno. Nel caso specifico, il rapporto è minato dall’aspirazione della coppia alla fusione confusa con la vicinanza; aspirazione che spinge i personaggi a credere che l’essere differenti sia un ostacolo, a colpevolizzare l’essere altro dell’Altro percepito come una minaccia alla propria integrità e a renderlo, in un certo senso, “muto”: Malcolm perché egocentrico e autoreferenziale, Marie perché insicura e vittima della sua vergogna.
Si tratta di un meccanismo irrazionale (l’“incoerente” ricerca di un contatto carnale e la necessità puerile di dirsi “ti amo” nel bel mezzo di una lite furibonda non ancora conclusa lo confermano), di un “difetto di fabbrica”, di un automatismo. Di una concezione errata e deformante della relazione intima per cui la parola è stata a lungo bandita e non sono ammesse incongruenze, disparità, mancanze. Indugiando sull’errore e stanando le debolezze altrui senza però elaborarli e neutralizzarli attraverso un dialogo costruttivo per orgoglio o per timore, Malcolm e Marie hanno covato rabbia e risentimenti, accumulato dubbi, esasperato le negatività trascurando le cure (“Secondo me quando hai capito che una persona ti sta vicina e ti ama va a finire che non ci pensi più” dichiara, a un certo punto, lei).
È la cura dunque l’essenza dell’amore, ed è nella cura che l’amore incontra e può coesistere con il bisogno: non quello immaturo del dare per ricevere che presto muta nel non dare più ormai certi di avere (detto altrimenti, non quello della richiesta d’identicità e della mania di possesso), bensì il bisogno nobile di uno scambio disinteressato, estraneo alla rivendicazione di una ricompensa perché fondato sull’idea del dono che, già di per sé, riempie. L’interazione così propriamente intesa si sottrae ad operazioni di calcolo, non è mai pretenziosa, non baratta la propria libertà per illusioni di garanzia e poggia su un atto di fede. Il rapporto amoroso è un rapporto senza condizioni (De Gaetano 2008), e in quanto tale si nutre della disponibilità del soggetto ad accogliere, con coraggio, il rischio di un’esposizione pericolosa a qualcosa di fondamentalmente vulnerabile, imperfetto, opaco, riuscendo comunque – non nonostante questo, ma proprio per questo – ad esserne grato. Se la disattenzione superficiale di Malcolm ha ferito Marie, il forte disagio di Marie ha reso “invisibile” Malcolm e ha vanificato, di conseguenza, i tanti piccoli e premurosi gesti che lui nel quotidiano le ha rivolto. Se Marie ha giocato un ruolo determinante nella carriera di Malcolm consentendogli di riutilizzare il suo passato come plot di un film meritevole e supportandolo, Malcolm ha alleggerito per lei il peso di un’esistenza tragica segnata dalle dipendenze e dalla depressione.
Affinché il loro amore possa di nuovo bastare a se stesso, farsi futuro ancora possibile lungi dal risolversi in un immodificabile passato, ciascuno dovrà allora ricordare quanto prezioso è stato ed è, per la propria fragile, limitata e carente esperienza del mondo, il puro e incondizionato esserci dell’altro; riconoscere il valore della sua insostituibilità, imparare a donare la propria mancanza; a dire “ti amo” perché la vita, senza quella singolare e inestimabile presenza, è vita che manca. Nella parte conclusiva del film, sopravvissuti alla notte che si appresta a finire, Malcolm e Marie sono in camera da letto. La discussione si è placata declinando in una più ragionevole conversazione in cui le parole cessano di essere sferrate per ferire, e costruiscono semmai un canale alternativo attraverso cui parlare per capirsi. In un elogio della gratitudine, amaro e consapevole, la protagonista femminile centra il problema. Sarebbe sufficiente, a volte, semplicemente non perdere l’abitudine e la straordinaria occasione di dire “grazie” a chi amiamo: “grazie” per le piccole cose, per il bello e per il bel tempo trascorso insieme, ma anche “grazie per gli sbagli che hai commesso” e, soprattutto, “per quello che sei” (differenza, unicità, ombra e mistero).
Prima di spegnere la voce, a Malcolm non resta quindi molto altro da fare. E quando tutto è stato detto, entrambi esausti si addormentano. Il discorso amoroso può, a quel punto, lasciare spazio alla quiete, alla serenità che forse, alla luce di un giorno nuovo, i due hanno finalmente ritrovato. Levinson pone in essere una questione a cui, nell’epilogo, non fornisce alcuna risposta (dopotutto «il cinema non deve avere sempre un messaggio, ma cuore»). Il claustrofobico dramma da camera che ha traslato sullo schermo, e che in qualche misura è e potrebbe essere anche il nostro, si risolve per questo in un finale aperto, in un campo lungo che consente la ripresa spontanea di un respiro e ritrae i personaggi molto al di là della vetrata, stavolta fuori e lontani, di spalle uno accanto all’altra, vicini e distanti quanto basta, custodi del loro intimo segreto.
Se volessimo pertanto tentare di darla noi una risposta, se non altro all’interrogativo di partenza, diremmo allora che l’amore che dura è l’amore che trae nutrimento dalla cura particolareggiata di un Altro insostituibile, dal dialogo tra «due posture rappresentative differenti» (Badiou 2009) che sappiano riconoscere, contro ogni spinta appropriativa, il confine che le separa. Quando non fa da scudo ma da sutura, quando la libertà più profonda – imprendibile ed inconoscibile – della persona amata non fa paura ma riaccende ogni giorno il desiderio, può compiersi il miracolo della durata, il miracolo dell’essere-Due, ancora, domani.
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza, Vicenza 2009.
Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari 2006.
R. De Gaetano, Tra-due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, Pellegrini, Cosenza 2008.
M. Recalcati, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, Feltrinelli, Milano 2019.
Malcolm & Marie. Regia: Sam Levinson; sceneggiatura: Sam Levinson; fotografia: Marcell Rév; montaggio: Julio Perez IV; musiche: Labrinth; interpreti: Zendaya, John David Washington; produzione: Little Lamb; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 116′; anno: 2021.