Walter Benjamin notava un secolo fa la segreta e vagamente perversa ammirazione che sempre ha suscitato nel pubblico la figura del «grande criminale», la cui mera esistenza al di fuori della Legge mette in questione l’esistenza e legittimità stesse della Legge (Benjamin 2008, pp. 467-488). E questo vale anche quando il «grande criminale» non è umano, come dimostra la vicenda dell’orso bruno con il nome in codice M49, che tra la primavera del 2019 e l’estate del 2020 ha suscitato un grande dibattito, ha riempito le pagine della cronaca e ha perfino creato uno scontro tra il Ministero dell’Ambiente e la Provincia di Trento.
M49 faceva parte del progetto “Life Ursus” per la reintroduzione dell’orso bruno sulle alpi, ideato nel 1996 con finanziamenti dell’Unione Europea e operativo dal 1999. Giovane maschio di circa tre anni, nella primavera del 2019 M49 inizia la sua carriera “criminale” avvicinandosi a e introducendosi in alcune malghe alla ricerca di cibo e attaccando alcuni capi di bestiame, per cui viene “ricercato” e alla fine catturato una prima volta il 15 luglio, e “incarcerato” nel centro faunistico del Casteller, vicino a Trento. Questa prima prigionia dura solo poche ore: verso l’alba M49 evade scavalcando una barriera alta 4 metri e tre recinti elettrificati. Dopo un inverno in letargo, le sue scorribande ricominciano in primavera e M49 viene catturato una seconda volta il 29 aprile del 2020 e riportato al Casteller, da cui riesce nuovamente a fuggire il 27 luglio, abbattendo una parte della recinzione. Queste rocambolesche fughe gli guadagnano il soprannome di “Papillon”, in riferimento alle famose fughe di Henri Charrière dalle colonie penali della Francia in Guyana, e anche la non segreta ammirazione e il sostegno di molte associazioni animaliste (e non solo), che criticano non solo le condizioni della sua cattura e della sua prigionia al Casteller, ma le politiche stesse di gestione della convivenza tra umani e non umani e la “criminalizzazione” dei comportamenti di questi ultimi. Il 7 settembre 2020 M49 è catturato per la terza volta, e nel gennaio del 2021 il Consiglio di Stato dà ragione alla Provincia di Trento che ha deciso di condannarlo alla “prigione perpetua” al Casteller in quanto troppo “problematico” per vivere in libertà.
Ma il nuovo libro di Massimo Filippi, M49. Un orso in fuga dall’umanità, non si preoccupa tanto di narrare o descrivere le vicende (assai note) di M49 o delle sue romantiche fughe. Certo, M49 è diventato un simbolo proprio perché rifiutandosi, da «grande criminale», di sottomettersi alla Legge umana che lo vuole docile, innocuo e visibile solo per farsi fotografare, mette in questione la legittimità di questa stessa Legge e l’immane violenza con cui essa si impone sul resto del creato. E questo simbolismo romantico senza dubbio sta all’origine anche delle meditazioni di Filippi. Questo libro, tuttavia, sublima il simbolismo romantico in una meditazione filosofica che si trasforma a sua volta in scrittura sperimentale. Dopo un’introduzione esplicativa (o meglio, un “avviso alle fuggiasche”) più teorica che poetica (ma i due registri si intrecciano e fondono di continuo in tutto il percorso), il libro si articola in tre capitoli che danno voce rispettivamente a tre soggettività (o post-soggettività, visto che scopo della scrittura è proprio la dissoluzione del – e una fuga dal – tradizionale soggetto autocentrato): la voce dell’orso stesso (“io”), la voce di un umano solidale con l’orso (“tu”), e infine una neutra “terza persona” o un “loro” (l’impersonale “si”) che, contro ogni dicotomia e divisione, mescola e confonde i registri ma anche la lingua e la grammatica.
L’impalcatura filosofica che sorregge gli esperimenti di Filippi è ben chiara: un fluire deleuziano che fa della fuga, della molteplicità e del rizoma la propria strategia e dell’immanenza materialista la propria cifra. E infatti “materia” del libro, ci dice fin da subito la nota introduttiva, è il “desiderio” (ma al plurale: i desideri), fluida forza vitale che vivifica l’animale, che spinge l’orso e il «grande criminale» a sfuggire alla presa della Legge, che ispira l’autore a sfuggire alla presa della “teoria” pura e dell’argomentazione lineare e finanche, a tratti, alle Leggi della lingua e della grammatica, e che dovrebbe idealmente anche provocare nel lettore uno sconcerto militante e ispirare una nuova prassi. Il desiderio dissolve il principium individuationis e rivela l’animale (incluso l’animale umano) come una moltitudine e un flusso, ma anche come una soglia, un tramite, un contatto. E infatti il protagonista, già ridotto a mero codice – M49 – e poi ribattezzato con un appellativo romantico e sentimentale – Papillon – rivendica per sé uno status intermedio e si rinomina “Tra”. Ma il desiderio per una soggettività e una lingua diversa dissolve anche l’engagement animalista e l’argomentazione filosofica in un gioco sperimentale di voci e di richiami, di citazioni più o meno esplicite e di inequivocabili prese di posizione. Gli esperimenti linguistici di Filippi non cercano solo – o non tanto – di dare la parola a M49 o di ribadire una – sempre ben chiara – posizione filosofica, ma cercano di inventare una lingua nuova e un nuovo approccio – con neologismi, giochi grammaticali, sintattici, e stilistici che, nell’ultimo capitolo (l’impersonale materico), trasformano la scrittura in una lunghissima frase senza punti fermi, che arresterebbero il flusso del desiderio, ma ritmata invece dai puntini di sospensione, che il flusso moltiplicano e fanno scorrere. E anche le belle illustrazioni di Andrea Nurcis che accompagnano il testo partecipano in fondo a questo gioco.
La questione centrale di questi esperimenti è proprio come reinventare una scrittura che possa dar voce all’animale e al mondo senza antropomorfizzarlo o “parlare per” (lui, lei, il mondo). Filippi rifiuta esplicitamente l’antropomorfismo, che, scrive, non è che un risvolto paternalistico e sentimentale dell’antropocentrismo e una proiezione dell’Umano (o meglio, dell’Uomo) imposta al mondo (Filippi 2022, p. 24). E tuttavia nel primo capitolo è proprio l’orso M49 a parlare, in una lingua umana, l’italiano, con una sintassi corretta, e con riferimenti culturali assolutamente umani (anzi, di un italiano colto del ventunesimo secolo); e anche quando la voce si fa impersonale, nel terzo capitolo, la parola umana rimane necessariamente il medium inevitabile della scrittura. Il divenire, il flusso, il desiderio non riescono (non possono) mai sfuggire alla condizione di una corporeità ben determinata in uno spazio e un tempo ben determinati. Ma l’uso che Filippi fa di quest’antropomorfismo mira proprio a smantellare il tossico narcisismo specista dell’antropomorfismo-come-proiezione e a restituire al non-umano non la “parola” – visto che quella è umana – ma una “voce” che esprima la pienezza e l’indipendenza di una vita desiderante che la tradizione occidentale gli/le ha sempre negato. In questo senso Filippi, pur rifiutando il termine, è in linea con la posizione di alcuni celebri etologi (Gordon Burghardt, Frans de Waal, Mark Bekoff) che rivendicano per un certo uso dell’antropomorfismo una funzione “critica”, “euristica” e propriamente “scientifica”.
La scrittura di Filippi aspira ad essere, deleuzianamente, uno «scrivere nel modo in cui un topo traccia una linea, o torce la propria coda, o come un uccello emette un fischio, come un felino si muove, oppure dorme pesantemente» (ivi, p. 25) (queste parole sono appunto di Deleuze). È la scrittura, allora, il vero soggetto del libro, un tentativo di prendere seriamente la tesi del filosofo francese secondo cui «si scrive sempre per gli animali». E questo perché, continua Deleuze, «scrivendo si dona sempre scrittura a coloro che non l’hanno, ma essi donano alla scrittura un divenire senza il quale essa non sarebbe» (ivi, pp. 25-26). Gli esperimenti di Filippi cercano di donare scrittura a M49 e da lui cercano di assorbire il divenire che alla scrittura infonde nuova vita, e la questione non è se siano più o meno riusciti o più o meno antropomorfici, ma quanta potenza riescano poi a trasmettere. Forse un giudizio su questa riuscita o meno è una questione di gusto e sensibilità personali, ma al di là delle preferenze di ciascuno Filippi è sicuramente riuscito in un gioco di invenzione filosofica e poetica che mira a superare le secche, umane, troppo umane, in cui i tanti e accesi dibattiti su M49 al Casteller, come anche tante filosofie e prassi, si sono arenate.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id, Opere complete, vol. I: Scritti 1906-1922, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Einaudi, Torino 2008.
M. Bekoff, Animal Emotions: Exploring Passionate Natures, BioScience 50 (2000).
G. M. Burghardt, “Animal Awareness: Current Perceptions and Historical Perspective,” American Psychologist 40.8 (1985); F. De Waal, Primates and Philosophers: How Morality Evolved, Princeton, Princeton University Press 2006.
Massimo Filippi, M49. Un orso in fuga dall’umanità, Ortica editrice, Aprilia 2022.
*L’immagine presente nell’articolo e in anteprima è uno scatto di Robert F. Tobler.