Chiunque si appresti a consultare il fascicolo di K. Revue trans-européenne de philosophie et arts (6/2021) dedicato a Lucrezio non può che rimanere smarrito. O quantomeno è la sensazione provata da chi ora si sta apprestando a scrivere qualche parola per presentarlo. Al di là dell’ampiezza del testo e degli argomenti trattati – una trentina di autori che, confrontandosi con vari aspetti del pensiero lucreziano, danno forma a un fascicolo di circa mezzo migliaio di pagine –, lo smarrimento deriva dalla complessità che innerva l’intero lavoro e lo informa in maniera trasversale. Utilizzo non a caso il termine complessità così da giungere al cuore delle questioni trattate da un angolo visuale particolare del nostro testo. L’aggettivo complesso, com’è noto, deriva la propria etimologia dal latino cum-plecto (intrecciato, tessuto insieme), parallelo al greco pleko (intreccio). Qualcosa di diverso dal significato di complicato (cum-plico, con pieghe) il cui opposto è semplice (sine plico, senza pieghe).

Ma cosa c’entra un discorso del genere in una lettura di un numero di una rivista dedicato a Lucrezio? La risposta si trova nel mesmerico saggio Fili e tessuti, cose e simulacri (pp. 76-90) che Tommaso Tuppini regala al lettore. L’atomismo di Lucrezio viene letto a partire da una metafora, che è più di una metafora. Gli atomi sono fili attraverso cui si inizia la tessitura del mondo; i corpi, dunque, sono nodi di una trama complessa, figure (termine la cui etimologia è prossima a quella di filo) che, muovendosi attraverso l’aria si modificano e, smembrandosi e sfogliandosi, toccano l’uomo in forma di simulacro. Un’assenza che si dà nella presenza, o viceversa. Se questa è la fisica del mondo, la sua physis senza fondamento, sarà solo la poesia, come ricorda anche Luca Salza nel suo intenso saggio contenuto nel fascicolo (Casualità dei mondi, e della storia. Attualità della poesia materialista di Lucrezio, pp. 14-33), il mezzo attraverso cui questa trama può trovare voce. Coerentemente a questa “coincidenza” tra materia e forma, conclude Tuppini: «Il De rerum natura è un tessuto di tracce coerenti in cui si è impresso il tessuto più o meno slabbrato del mondo» (p. 87).

Se è vero che la metafora della tessitura ci restituisce in maniera abbastanza fedele tanto un aspetto particolare dell’opera di Lucrezio quanto il modo attraverso cui rapportarci all’intero fascicolo di K. che a quella è dedicata, mi pare altrettanto significativo provare a pensare i testi che stiamo analizzando come il risultato di una visione caleidoscopica. Un fascio di luce entra nel caleidoscopio e ne viene fuori una bellissima messe di testi che si confrontano con la filosofia e con vari filosofi (Deleuze, Spinoza, Schiller e Althusser, solo per citarne alcuni), con la letteratura (Pasolini, Leopardi, Proust), con l’arte plastica, con il cinema e con il teatro.

Ovviamente sarebbe ingenuo e fuori misura voler riportare in questo contesto le tematiche trattate dai vari saggi – a cui rimanderemo in maniera rapsodica. Possiamo tuttavia provare a chiarire quale sia il fil rouge che li lega e che, ritornando alla metafora ottica, funge da caleidoscopio. A rivelare la posta in gioco sono i due curatori del numero, Pierandrea Amato e Luca Salza, che nell’editoriale dipanano alcuni fili – ritorna la metafora tessile – del percorso di ricerca comune condotto dagli autori intorno all’idea cardine che dà anche il titolo all’intero fascicolo: natura senza fondamento.

L’opera di Lucrezio, la sua poetica, sarebbe attraversata interamente da una presa di coscienza: l’unico fondamento della natura è quello di non avere alcun fondamento, di essere s-fondata, abissale (ab-gründlich). In altri termini, la natura sarebbe attraversata da parte a parte dal negativo, dalla sottrazione, dalla mancanza; vi sarebbe un lato oscuro della natura al cui centro si incista in maniera prepotente la morte e la distruzione. Facendo il verso a un fortunato volume su Deleuze, e proponendo tuttavia un’interpretazione del pensiero lucreziano diametralmente opposta a quella di Deleuze stesso, Thomas Nail, nel suo approfondito saggio dal titolo Dark Lucretius: the Birth of Death (pp. 103-128), vede nelle pagine del De rerum natura una fenomenologia della morte e della dissoluzione – basti pensare alla descrizione di Lucrezio della peste di Atene –; con la cautela, tuttavia, di interpretare questi fenomeni come fonte di creatività e di vita. Trovando così nell’opera del poeta latino un referente aurorale e naturalmente inconsapevole dei discorsi sulla termodinamica e la fisica quantistica che nel Novecento hanno rivoluzionato il mondo della scienza e, con questo, il nostro modo di “comprendere” la natura.

Ma pensare una natura senza fondamento, ci dicono i curatori, significa al contempo ripensare la catastrofe e il disastro. Significa collocarci alla fine del mondo e alla fine dei mondi; e anche alla fine della fine. Farla finita con ogni fine. Lucrezio, con il suo poema in versi, rappresenta un manuale di istruzione per muoverci in un mondo senza senso; una sorta di mappa di un continente da scoprire, da creare. La catastrofe, nelle pagine del De reruma natura, prende il nome di clinamen. Una piccola deviazione, un piccolo corto circuito; una scintilla che devia dall’ordine costituito ed ecco che avviene, e-viene la rivolta dell’ordine delle cose. E qui che, come sottolinea in maniera magistrale Turrini, nel suo saggio Poetiche della contingenza (pp. 129-143), si apre nel pensiero di Lucrezio la possibilità per impostare un discorso etico.

In questo frammezzo di indecidibilità tra fisico e psichico, tra cosmologico e antropologico si offre lo spazio per declinare la contingenza dell’incontro come il luogo atopico per liberare l’evento. D’altra parte, come ricorda spesso Deleuze, autore che in qualche modo sta sullo sfondo dell’intero numero di K. dedicato a Lucrezio, essere all’altezza di ciò che accade è la forma più alta di etica. Se è vero che la catastrofe nelle pagine di Lucrezio viene pensata attraverso il concetto di clinamen – che, come ricorda sempre Turrini, invero occorre solo una volta, come sinonimo del termine declinatio –, altrettanto centrale nell’interpretazione del pensiero lucreziano è il concetto di vuoto. L’intenso saggio di Roy, La place du vide (pp. 91-102), mostra come in Lucrezio il vuoto non è sinonimo di nulla e di niente; il vuoto non ha luogo perché è il luogo. È ciò che fa passare le presenze senza passare; è ciò che permane al di là di ogni logica binaria tra presenza e assenza. Forse si potrebbe qui azzardare un paragone con il nulla heideggeriano, il quale, nulleggiando (das Nichts nichtet), apre lo spazio affinché si dia evento.

Il vuoto è lo spazio di creazione; ma di una creazione che nulla ha che vedere con la creatio ex nihilo di matrice biblica. Anzi, come emerge in maniera straordinaria dalle parole dell’intervista allo scultore Leperino (pp. 165-184), la creazione ha a che fare con un’opera di sottrazione. È una scrittura della minorità, un elemento clandestino. La scultura dà voce al vuoto, all’incompletezza, alla ferita. La scultura più che scienza dei corpi è fenomenologia della carne. Nel 2019 Leperino intitola “Abisso” una sua personale ospitata nel castello di Ischia: è nella mancanza di fondamento, nel venir meno della forma che, secondo Leperino, prende forma, certo temporaneamente, il caos. Il caos è l’origine immemoriale e “insensata” della fisica lucreziana; una turba informe che non richiede normalizzazione ma ritmo e forme di vita capaci di abitare il caos stesso. È quanto emerge dalla poetica della coreografa Maguy Marin, in cui la polisemia del termine turba (che indica, al contempo tanto il caos quanto la folla) apre lo spazio per una lettura politica tanto del De rerum natura quanto di tutta la produzione di Marin stessa.

Una natura senza fondamento, come quella cantata ritmicamente da Lucrezio, può trovare forma soltanto nella poesia. La poesia, ci dice Salza, è una pratica della catastrofe. Il poeta è l’unico che riesce a mettere in versi il silenzio di fronte al disastro. Quell’allontanamento dagli astri (dis-astro), dall’ordine che, come ricorda Lucrezio a ogni piè sospinto, è inscritto nell’essere delle cose. Chi vuole farsi portavoce di questa catastrofe potrà parlare soltanto per sottrazione. In questa disconnessione tra essere, pensiero e parola, che colloca Lucrezio fuori dalla logica della filosofia greca delle origini, non avviene nessuna adikía. Come ci ricorda Maurizio Zanardi (La poesia delle cose, pp. 48-58), nel nascere le cose non commettono alcuna ingiustizia, non devono ritornare a nessuna origine; le cose accadono, e-vengono, scorrono. Siamo di fronte a una fisica dei fluidi; a una physis senza fondamento, senza origine, priva di arché.

Nelle mani degli autori della rivista, che seguono le tracce impresse al numero dai curatori e dall’idea di una natura senza fondamento, il De rerum natura diviene l’espressione di un gesto dadaista. Non significa nulla, perché non c’è nulla da dire. Perché c’è da dire il nulla. Scrive Maurice Blanchot: «Scrivere: rifiutare di scrivere – scrivere per rifiuto, per cui basta che gli si domandi qualche parola perché si affermi una sorta di esclusione, come se lo si obbligasse a sopravvivere, a concedersi alla vita per continuare a morire. Scrivere per difetto» (Blanchot 2021, p. 18). E forse, solo nell’impercettibile sibilare di questo nulla, di questo difetto, di questo balbettare, può avvenire una piccola deviazione, quel clinamen che, non avendo nulla da rappresentare, può sconvolgere l’intero corso delle cose. Ecco che, allora, Lucrezio diviene il nome di un potere destituente, di una minorità nomade; ecco che, ci annunciano i curatori:

Vogliamo condividere la nostra passione per Lucrezio, vogliamo leggerlo per strada, vogliamo scrivere il suo nome sui muri, ricopiare i suoi versi nei bagni pubblici o sulle bacheche dei social networks perché è questo sfortunato, grandissimo, umilissimo, poeta che ci dice che, nel ripetitivo trascorrere del tempo,  nel tempo vuoto e omogeneo, nella desolazione che era la sua, che è la nostra, è possibile che qualcuno si fermi, inizi a girare su stesso; è possibile che un clinamen intervenga nelle oscure vicende di un essere qualunque (p. 12).

E, si parva licet, aggiungo qui, può essere che il clinamen intervenga dopo la lettura di questo numero appassionante, sfibrante, poetico e rivoluzionario di K. Revue trans-européenne de philosophie et arts.

Riferimenti bibliografici
M. Blanchot, La scrittura del disastro, il Saggiatore, Milano 2021.

Lucrezio: Natura senza fondamento, a cura di Pierandrea Amato e Luca Salza, “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, n. 6, 2021.

Tags     Lucrezio, natura, Poesia, Revue K
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