Solitamente il profilo di uno studioso di chiara fama è facilmente delineabile, così come la ricaduta del suo insegnamento, tra gli allievi e il grande pubblico, è di norma coerente col suo operato. Per fare un esempio, da un filologo puntiglioso è legittimo attendersi un’eco di nicchia, da un massmediologo dal chiaro impegno sociale ti aspetti strade innovative e una riconoscibile impronta politica, negli allievi come nella maggioranza dei lettori.

Non così per Luca Serianni. L’intera sua produzione scientifica, infatti, paragonata sia ai suoi comportamenti sia all’eco presso il grande pubblico, non cessa di stupire, anzi di suscitare straniamento. Per chi ha avuto la fortuna di averlo come Maestro, il ricordo del primo contatto con il suo insegnamento genera un contrasto che non esiterei a definire perturbante. La precisione millimetrica dello storico della lingua allevato alla disciplina e alla metodologia di Arrigo Castellani, una memoria prodigiosa che gli faceva citare passi dall’intera Divina commedia agli opera omnia carducciani, fino al minimo dei poeti barocchi (Paolo Zazzaroni, per fare un nome), l’infallibilità della ricostruzione etimologica di ogni forma dal latino all’italiano e ai vari dialetti, una dizione pressoché inappuntabile (senza essere ostentata), incarnata in un tono di voce modulato ipnoticamente, rendevano le sue lezioni una specie di esperienza mistica. Chi sta leggendo, in questi giorni, le testimonianze di centinaia di suoi studenti nella pagina Facebook dedicata alla memoria di Luca sa bene quanto io non stia esagerando. Eppure sarebbe lui (così schivo e distante dai social) il primo a stupirsi di avere ormai un séguito degno del miglior influencer.

Dalla prima lezione di Storia della lingua italiana uscivi sempre con varie certezze: l’onniscienza di quell’uomo, la convinzione che considerasse la lingua italiana come un tesoro da preservare (convinzione rafforzata dalla fama della sua Grammatica Utet, 1988, poi Garzantina, cioè, in tutto il mondo, la grammatica italiana per antonomasia), il tuo irriducibile complesso di inferiorità e la voglia (mista a timore e vergogna) di laurearti con lui. Ti sentivi al contempo straniato e rassicurato soprattutto perché capivi per la prima volta che nella facoltà di Lettere non c’erano soltanto lezioni interessanti ma difficilmente riassumibili ai fini di un esame o di una tesi, ma anche un modo scientifico e cristallino, e per questo riproducibile, di confrontarti coi testi. Poi capitava (sempre) di avvicinarlo, al ricevimento studenti o anche semplicemente nei corridoi, fuori dall’aula o al telefono, e rimanevi stordito. Quel signore d’altri tempi (già quando aveva trent’anni) aveva sempre la battuta pronta, ti confidava di amare er Monnezza di Tomas Milian, ti si mostrava disponibile a prestarti i suoi libri o a regalartene, a rispondere a tutte le tue domande, magari invitandoti in pizzeria, non arrivava con un minuto di ritardo neanche quando stava male, era disposto a revisionare i tuoi scritti (non soltanto tesi e tesine), ti stava ad ascoltare sempre. E soprattutto, se lo interrogavi su fatti di lingua, scoprivi che, lungi dall’atteggiamento puristico che gli attribuiva chi lo conosceva poco e male, per lui l’importante era la scioltezza e la funzionalità dell’italiano, né si scandalizzava di fronte ad anglismi o neologismi. Lui, punto di riferimento per generazioni di grammatici, diceva sempre che più grave dell’errore d’ortografia (una svista può succedere a chiunque e la grammatica è piena di zone d’ombra o zone grigie, come le chiamava lui), era la mancanza di coerenza o la scelta lessicale infelice (Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006).

Quando poi cominciavi ad approfondire la sua bibliografia, scoprivi che la sua scienza non si fermava certo a Dante (cfr. da ultimo Parola di Dante, Bologna, il Mulino, 2021, ma già il commento linguistico del primo canto dell’Inferno in Lezioni [Appunti, nella prima edizione del 1988] di grammatica storica, Roma, Bulzoni, con infinite ristampe, più varie Lecturae Dantis pubblicate qua e là), all’italiano antico, all’aretino medievale (Ricerche sul dialetto aretino nei secoli XIII e XIV, Firenze, Sansoni, 1972) e alla grammatica, bensì toccava punti pressoché inediti della linguistica italiana (soprattutto fino alla fine del secolo scorso): la lingua di Topolino, i bugiardini dei farmaci, i necrologi, i libretti d’opera, i temi scolastici, gli articoli di giornale, le ideologie linguistiche e tanto altro ancora (alcuni di questi e altri saggi si leggono già nella prima raccolta Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano, 1989; altri in Per l’italiano di ieri e di oggi, Bologna, il Mulino, 2017; altri ancora nelle principali riviste specialistiche del settore). E a quel punto la distanza di Luca da ogni altro professore universitario e ogni altro linguista cominciava a sembrarti siderale. Altro contrasto straniante, soprattutto rispetto ai suoi colleghi, era quello tra la summa della sua dottrina e l’umiltà con cui si relazionava con gli altri.

Insomma, di fronte a Luca eri continuamente tirato da due poli opposti: tradizione e innovazione; culto e desacralizzazione della parola; rigore a affabilità; profondità e leggerezza. Se poi decidevi di laurearti con lui scoprivi che non ti imponeva mai un argomento ma voleva che fossi tu a sceglierlo secondo le tue inclinazioni: dalla lingua del cinema alla canzone, da sconosciuti prosatori sei-settecenteschi a traduzioni dall’inglese, dai linguaggi scientifici a quelli telematici. E se l’argomento che sceglievi non era nelle sue corde si metteva a studiarlo e non si sottraeva mai al confronto.

Questa sua apertura totale ad ogni oggetto comunicativo ha avuto almeno due effetti salutari nell’innovare i metodi e la produzione degli storici della lingua italiana. Il primo è stato quello di allevare schiere di studiosi che, lungi dal riprodurre acriticamente i risultati del Maestro, hanno dissodato nuove strade nell’analisi linguistica: la saggistica degli ultimi trent’anni nei campi della lingua del melodramma, del cinema, della canzone, della medicina, della scienza, dei giornali e molto altro deve moltissimo all’impronta di Luca Serianni (cfr. almeno i suoi Viaggiatori musicisti poeti. Saggi di storia della lingua italiana e Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, Milano, Garzanti, 2002 e 2005), che non ha mai imposto, neppure ai più giovani ricercatori suoi diretti collaboratori, alcun percorso predefinito.

Il secondo è un effetto bifronte, positivo e negativo insieme (malgré lui), e riguarda il rapporto col mondo della scuola. Serianni, insieme con Tullio De Mauro, è stato lo studioso di linguistica che più di ogni altro ha costruito ponti tra scuola e università. E lo ha fatto non tanto con le sue Grammatiche (dopo la prima, varie altre per la scuola scritte anche insieme a Giuseppe Patota e Valeria Della Valle), i suoi saggi sulla didattica, la cocuratela (con Maurizio Trifone) del nuovo Devoto-Oli e la consulenza ministeriale sui programmi scolastici, quanto con un numero impressionante di incontri (progressivamente crescente fino alla fine dei suoi giorni) con docenti e discenti di tutte le scuole d’Italia. Più una scuola era periferica, meno era blasonata, e più Luca era felice di accettarne l’invito. Diceva sempre che il vero cimento della didattica dell’italiano era nelle scuole medie e negli istituti tecnici e professionali di periferia, quelli cioè in cui il rischio della deprivazione linguistica era più serio, perché chi non è in grado di capire un testo (per esempio un quesito referendario), di riassumerlo, di scrivere in modo comprensibile sarà sempre relegato al ruolo marginale di cittadino di serie B. (L’ora d’italiano. Scuola e materie umanistiche, Roma-Bari, Laterza, 2010; Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura, ivi, 2015; con Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi. L’italiano a scuola fra alunni e insegnanti, Roma, Carocci, 2015).

Rifiutava più spesso l’invito di un celebre ateneo italiano o straniero che non quello di una scuola. Donde la sua convinzione – sulla quale si è giustamente tanto insistito, dopo la sua morte – che didattica e democrazia, senso dell’insegnamento e senso dello Stato, fossero una cosa sola («Voi per me rappresentate lo Stato», disse agli studenti nella sua memorabile ultima lezione universitaria del 2017).

Assistere a una lezione di Luca Serianni nelle scuole era una ventata d’aria fresca: quello straniamento provato da noi allievi universitari (e ancora da noi colleghi) era massimo negli uditori adolescenti, che per la prima volta si sentivano dire, da chi era stato loro presentato come il vate del bello stile e il garante della grammatica, che saper capire un articolo di politica sul giornale era almeno tanto importante quanto conoscere Foscolo e Pirandello, che la lingua di Internet non era il male del mondo, che l’inglese non stava uccidendo l’italiano, che lui al posto di egli si usa fin da Dante e che l’indicativo può sempre sostituire il congiuntivo… E così anche gli insegnanti di matematica e scienze comprendevano l’indispensabilità d’interfacciarsi con l’ora di italiano (e viceversa), che certi steccati dovevano crollare e che insegnare sia sempre soprattutto una missione civica.

Perché ho parlato di effetto bifronte? Perché non tutti i docenti di scuola erano né sono pronti a recepire il suo insegnamento rivoluzionario. Eh già, mai il mite Luca si sarebbe autonomato rivoluzionario né militante, ma di fatto lo era al massimo grado. Molti, sì, ma non tutti. Per una minoranza, purtroppo, il nome di Luca Serianni è stato, ed è tuttora, invocato a (s)proposito della protezione, a tutti i costi, dell’italiano letterario e quindi contro le ragioni dell’uso, la naturale evoluzione della lingua contemporanea, i naturali fenomeni di interlingua ecc. C’è insomma tutta una fetta della scuola convinta che di Serianni si debba tener conto soltanto delle lezioni dantesche e dei corsi di grammatica storica. Esperto dei puristi ottocenteschi (Norma dei puristi e lingua d’uso nell’Ottocento. Nella testimonianza del lessicografo romano Tommaso Azzocchi, Firenze, Accademia della Crusca, 1981), quello di Serianni, nella prassi didattica e saggistica, era un purismo apparente e un antipurismo dissimulato. Studioso raffinato dell’italiano letterario (La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci, 2018 ma già in edizioni precedenti dal 2001; Il verso giusto, Roma-Bari, Laterza, 2020), ricercatore instancabile dell’italiano scritto e sincero estimatore della lingua carducciana, per lui l’analisi di una pagina d’italiano popolare, un brano dialettale, un discorso televisivo e un articolo di cronaca rosa meritano la stessa attenzione, la medesima acribia filologica e ugual rispetto di qualunque altro testo.

Né le innovazioni apportate da Serianni alla linguistica italiana si limitano all’apertura dello spettro tematico. Nel citato La lingua poetica italiana mostrò come, a differenza degli italianisti, i linguisti fossero chiamati a individuare non tanto lo stile degli autori (cioè lo scarto dal consueto, le scelte idiosincratiche, la parole), quanto le regolarità, la convenzionalità, i fatti di langue (cioè la grammatica), donde la sua passione per i libretti d’opera, quintessenziali precipitati della langue poetica. Alla sua estesissima bibliografia, qui riassunta in minima parte, andrebbero infine aggiunte non soltanto le prefazioni ai libri di altri linguisti, ma anche una fittissima produzione inedita di glosse, consigli, correzioni e proposte che Luca, con generosità ineguagliata e incredibile resistenza fisica, regalava alle centinaia di studiosi che non potevano rinunciare al suo imprimatur prima della pubblicazione di libri e articoli. Un Serianni sommerso (per riprendere un aggettivo caro a lui che parlava di norma sommersa), quest’ultimo, non meno fecondo e incisivo, per le sorti della storia della lingua italiana, di quello edito.

Il vero culto della parola per Luca Serianni, insomma, non era museale; esso consisteva piuttosto nella fiducia assoluta nello studio come automiglioramento, nell’ottimismo della didattica, oltreché della volontà, nella pratica della humanitas (non solo) accademica e nell’incrollabile desiderio di spiegare (e insegnare) il funzionamento dei testi (corpi sempre vivi e parlanti), tanto da poterlo restituire oralmente (flatus vocis) ai suoi interlocutori.

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