«Dobbiamo preoccuparci della forma, a noi interessa l’estetica» ripete l’intellettuale nazionalista Vicuña all’avido latifondista Menéndez, durante una visita in occasione del centesimo anniversario della nascita del Cile. Compito dell’emissario del governo è contribuire alla costruzione di un archivio plurale di testimonianze sullo sviluppo del Paese, ricucendo in questo modo l’asimmetria della storia comune grazie a un recupero memoriale delle vicende della comunità Ona, gli indigeni vittime da anni di soprusi e violenze indiscriminate. Eppure l’operazione del funzionario tradisce lo sguardo differenzialista con cui i dominatori osservano quella popolazione, privandola ancora una volta di una dignità autonoma, in quanto la narrazione collettiva che si sta realizzando è evidentemente a uso e consumo delle classi al potere.

Con Los Colonos Felipe Gálvez suggerisce un’idea di cinema in grado di promuovere una curvatura del tempo del racconto verso voragini esistenziali orizzontali, ipotizzando cioè linee di fuga metaforiche – dal peso della storia e dall’immagine monolitica di sé stessi – orientate contemporaneamente al di là e al di qua dei miti fondativi del Cile. Non appare casuale, quindi, la scelta da parte del regista di ricorrere a un formato di immagine in 4:3, accorgimento formale che, evocando la relazione tra cadre e cadré, tra inquadrare e inquadrato, gli consente di esprimere la sua denuncia: la vastità del paesaggio delle Ande è compres(s)a da un limite di osservazione unilateralmente definito dal passato coloniale del Paese, che intende eliminare parti di memoria non armoniche rispetto alla identità tramandata. 

La Terra del Fuoco è connotata da colori glaciali, in un ossimorico scambio di stato che fa del confine del mondo il limite ultimo delle possibilità dell’umano, dove l’azione appare compromessa dall’angoscia insanabile di doversi giustificare per il semplice fatto di abitare il proprio spazio. Tutto il film, che sul piano diegetico è vivacizzato dal ritmo dell’espansione e della successiva contrazione dei possedimenti terrieri del signor Menéndez, non va nella direzione di una completa adesione al reale – il genocidio dei Selk’nam è un dato storicamente rilevante, eppure scarsamente riconosciuto nel dibattito pubblico cileno -, risultando invece più interessato a cogliere la tensione causata dai rapporti di forza carsici che intercorrono tra la politica e la dimensione privata.

«Un uomo in meno non è un problema; il problema sono gli indios: hanno rotto tutti i miei steccati e mangiato la mia carne, come le bestie che sono»: questo ripete il ricco personaggio all’inizio dell’opera, preoccupato com’è di definire e controllare i vasti territori in suo possesso fino alle coste dell’Atlantico, affidando una missione di ricognizione a due militari annoiati, il tenente britannico MacLennan e il machista statunitense Bill, accompagnati da un “meticcio”, Segundo, in grado di muoversi con destrezza lungo il percorso. Lo statuto liminare dell’opera è evidenziato dalla presenza di frontiere oltre che territoriali, anche linguistiche e semantiche, sapientemente dislocate dal regista: se gli indios sono “bestie”, animali feroci, le immagini non possono che raccontare con spietatezza ferina le violenze da essi subite, mutilati o stuprati per il volere cieco di chi intende operare la loro rimozione dalla storia.

Il racconto degli ultimi alle frontiere della terra induce a una riflessione sul regime dello sguardo che domina la prospettiva coloniale, da intendersi come sguardo spettrale (nel senso di Lacan), che non è riconducibile, cioè, all’attività di osservazione del soggetto, ma a ciò che è assente o celato. Da tale prospettiva Segundo diviene figura paradigmatica di un processo di progressiva marginalizzazione della rappresentazione della comunità locale, come viene suggerito dalla sequenza in cui il tenente, sentendosi minacciato dal giudizio silenzioso del ragazzo sulla barbarie a cui è sottoposta la sua gente, gli urla che per lui l’unico destino possibile è l’oscurità. Il “meticcio” è caratterizzato non solo dal non-linguaggio, che allude alla privazione di ogni diritto da lui subìta fin dentro al suo corpo, ma anche dalla inazione, nonostante sia costantemente in movimento per svolgere il compito che il padrone gli ha affidato; vorrebbe, infatti, farsi giustizia da solo durante una delle missioni di perlustrazione, ma non ci riesce, come se avesse introiettato lo sguardo normativo di un sorvegliante colonizzatore che pure non c’è. Prigioniero nella coscienza e estromesso dal tempo storico, egli sembra appartenere al mondo ipogeo dei simulacri, depositario di una saggezza mitica.

Una questione di “estetica” è, dunque, il suo nomadismo (Deleuze, Guattari, 1980) in questo film di confine (politico, narrativo) e di confini (geografici, esistenziali), in cui l’apertura all’autentico coincide con un passaggio ritualizzato violento di adattamento all’identità sociale posticcia imposta dalle classi dominanti. Nell’ultimo capitolo del film si assiste al gesto compensatorio dell’emissario Vicuña che, alcuni anni dopo lo sterminio degli Indios a cui il protagonista ha partecipato per volere di MacLennan, va a fargli visita per un’intervista che gli consenta di riscrivere correttamente quella pagina della storia nazionale. “Sarebbe davvero importante per me avere una sua immagine che renda veritiera la sua testimonianza” gli dice Vicuña, specificando che desidera immortalarlo non con un ritratto ma con “una fotografia in movimento”. Davanti a una primordiale macchina da presa fa accomodare Segundo e la moglie Rosa, imponendo loro di indossare non gli abiti propri, ma quelli eleganti della borghesia cittadina e di mettersi in posa come se stessero gustando un tè in giardino.

La richiesta di Vicuña è l’ennesimo atto mancato di un riconoscimento della comunità indigena all’interno di un orizzonte politico soltanto in apparenza nuovo, che è in grado di ridefinire l’identità nazionale esclusivamente nei termini di una socialità artificiosamente ed ipocritamente integrata: “La lana macchiata di sangue perde il suo valore”, dichiara alludendo ai misfatti da rimuovere dalla memoria collettiva. Dalla prospettiva della biopolitica foucaultiana, il gesto dell’emissario non è altro che un’azione di riposizionamento storico, in cui la sovranità, che un tempo offriva la morte, ora concede il lasciar vivere a patto che si accetti il sacrificio della memoria. Ragionando su riconoscimento e sopravvivenza in relazione ad alcuni scritti di Frantz Fanon, la filosofa Judith Butler in dialogo con la collega Athena Athanasiou (2019) giunge alla conclusione che il rapporto tra questi due elementi «è intrinsecamente triste nella sua dipendenza dalla normatività sociale. La sopravvivenza viene configurata e stanziata in modo differenziale dalle operazioni normative e normalizzanti di potere […]. Essa denota la dichiarazione da parte del soggetto delle perdite e dei divieti che inaugurano il suo emergere nel mondo sociale e, allo stesso tempo, la riformulazione delle interpellanze ingiuriose attraverso cui è stato costituito e da cui dipende per la sua esistenza».

Nel finale del film, però, si assiste ad una svolta inattesa: Rosa, nonostante le insistenze di Vicuña, si rifiuta di obbedire ai suoi ordini. Il prolungato sguardo in macchina della donna esprime la sua ribellione silenziosa ma determinata alla violenza di quel riconoscimento che risponde a un progetto di pacifica assuefazione.

Riferimenti bibliografici
J. Butler, A. Athanasiou, Spoliazione. I senza casa, senza patria, senza cittadinanza, Mimesis/Eterotopie, Milano 2019.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.

Los colonos. Regia: Felipe Gálvez Haberle; sceneggiatura: Antonia Girardi, Felipe Gálvez Haberle, Mariana Llinás; fotografia: Simone D’Arcangelo; montaggio: Matthieu Taponier; interpreti: Camilo Arancibia, Heinz K. Krattiger, Mark Stanley, Alfredo Castro, Benjamín Westfall, Augustín Rittano, Mariana Llinás; produzione: Ciné-Sud Promotion, Snowglobe, Quijote Films, MK2Films, Finite Films, Sophie Dulac Productions, Quiddity Films, Volos Films, Rei Cine, Film i Väst, Sutor Kolonko; distribuzione: MUBI; origine: Argentina, Cile; durata: 101’; anno: 2023.

Share