Lontano lontano di Gianni Di Gregorio è un esercizio di viaggio nel tempo prima che nello spazio. Il centro dell’azione, come accade nelle sue opere a partire dal film rivelazione Pranzo di Ferragosto (2008), è sempre il suo quartiere, la centralissima Trastevere. Questa volta, però, l’azione tende a decentrarsi, spostandosi nella periferia di Tor Tre Teste e perfino per un momento nei margini estremi, dove si rifugiano di notte i migranti. E tuttavia l’avatar di Gianni nel film, in questa occasione un professore di latino in pensione, e il suo Sancho – non più il “Vichingo”, purtroppo deceduto, personaggio autentico della bohème trasteverina, sostituito dal fenomenale Giorgetto (Giorgio Colangeli) – continuano a pensare, vivere e sentire come se Trastevere fosse il centro di Roma e del mondo. Il viaggio dentro e fuori Trastevere ci costringe perciò a immaginare come sarebbe l’esperienza della capitale, se la dovessimo pensare senza l’abnorme periferia che la circonda.
Trastevere resta quella che è stata per quasi due millenni: un’area periferica della città storica, un tempo unita solo da due ponti al resto della città, destinata durante l’epoca imperiale a ospitare le comunità di stranieri (specialmente mercanti e artigiani) stabilmente residenti (spesso da diverse generazioni) nella capitale dell’Impero; tra queste c’era la comunità ebraica, prima della segregazione nel Ghetto. Borgo resterà sempre e solo una superfetazione del Vaticano: un borgo sorto attorno alla residenza del principe appunto. Ai due ponti di Trastevere la nuova amministrazione dell’Italia unita ne aggiungerà altri e, con l’apertura di Viale Trastevere (all’epoca Viale del Re) in corrispondenza di Ponte Garibaldi, stravolgerà l’asse viario del quartiere, prima incentrato su vie parallele al fiume, tagliando in due il rione. Ma tutt’intorno a sé Trastevere continuerà solo ad avere ville, orti, conventi, una collina (il Gianicolo) e campagna. Non a caso gli amici del Bar San Calisto canzonano Giorgetto, il quale non sarebbe mai andato oltre Porta Settimiana, l’antica porta medievale che ricorda il carattere decentrato e periferico (a ridosso delle mura) del rione “oltre il Tevere” rispetto al resto del centro storico.
L’esercizio proposto allo spettatore è un viaggio nel tempo, perché la Roma vissuta quotidianamente dal Professore e da Giorgetto di fatto non esiste più. Perfino la loro parlata, fatta di sussurrati e strascicati, è tanto diversa dal “romanaccio” secco e tagliente che si parla fuori, come quello perfettamente recitato da Fiorella (Daphne Scoccia), la figlia di Attilio – un Ennio Fantastichini in un’ultima generosa prova d’attore – “l’avventuriero” che i due contatteranno per realizzare il loro progetto. D’altronde è Belli, il padre della poesia romanesca, ad averlo detto: Roma non ha una lingua perché manca di popolo. Roma ha una plebe, la quale si fa capire attraverso una parlata, in cui l’uso rende impossibile lo stabilirsi di qualsiasi grammatica – quindi di qualsiasi corpo politico. A Roma ogni diverso tipo sociale ha una parlata sua propria.
Il Professore e Giorgetto esplorano una periferia già storica come Tor Tre Teste, sovrastata dalle Vele di Meier, chiesa simbolo del giubileo nel nuovo millennio: è un quartiere fatto di villette condonate e di viuzze strette che riproducono e insieme stravolgono l’idea di uno spazio urbano familiare e a misura d’uomo, com’è la loro Trastevere. Non solo, così scoprono un’altra Roma. Attraverso la conoscenza di Attilio i due entrano in un sogno nuovo, moderno o meglio postmoderno, in cui il desiderio hippy d’avventura e di fuga dalla civiltà del lavoro e del consumo si trasforma, con il giungere della terza età, nell’obiettivo di godersi la pensione in un piccolo paradiso climatico e fiscale per il ceto medio. In questa impresa i tre sono consigliati da un altro e più agiato Professore (Roberto Herlitzka), esperto in questo genere di speculazioni finanziarie di piccolo cabotaggio, che li riceve in un altro luogo tipico di questa Roma postmoderna che è la villa nell’hinterland. Roma in fondo non è cambiata molto dai tempi del Belli: alle parlate idiomatiche si sono sostituiti i villaggi separati.
Roma ha perso le sue parlate, è dispersa in una serie virtualmente infinita di villaggi che sono villaggi globali anche (e soprattutto) quando sembrano periferici: è a Tor Tre Teste che i tre, perseguendo l’obiettivo di trasferirsi alle Azzorre, scoprono il portoghese e il cibo esotico grazie alla donna brasiliana di Attilio. Eppure, attraverso la storia dell’amicizia tra i tre uomini, giunti a vivere l’ultimo pezzo delle loro esistenze, questa Roma sempre più “sbrindellata” ritrova quello che Emilio Garroni definirebbe con Kant un “sentire comune”: non il generico buonsenso proprio di tutti gli individui dotati di “sano intelletto”, ma una capacità di disporsi, per così dire, all’ascolto e alla comprensione degli altri. È una condizione che precede, ma non nega la possibilità di un linguaggio condiviso; al contrario, sembra perfino postulare la necessità, se non addirittura il dovere etico, di dotarsi di un simile strumento di comunicazione universale.
Questo mi pare il significato etico più profondo del film: lo racchiude l’immagine finale dei tre uomini, i quali hanno rinunciato al progetto di andare all’estero e si ritrovano davanti a un chioschetto nell’entroterra vicino Terracina, sostituto di un chiringuito vagheggiato, che era forse a sua volta il surrogato di un ritorno al passato, a un’infanzia o a una giovinezza perdute. Mangiano una fetta di cocomero sotto il sole estivo. Gianni Di Gregorio, con il suo “non recitato” a mezza bocca, emerge in questa immagine con tutta la sua forza di un personaggio a metà tra Monsieur Hulot e Baudelaire, ma alla romana: borghese eppure cresciuto in mezzo al popolo, colto e tuttavia amante dei piaceri effimeri che offrono i “bassifondi”, dandy ma senza affettazione, il suo personaggio non fa un esercizio di adattamento alla modernità. Dà invece prova di doversi sempre di nuovo radicare nell’antimodernità: in piedi, gambe larghe e il torso e le braccia protesi in avanti, le mani che tengono goffamente la fetta di cocomero nel tentativo di mangiarlo senza sporcarsi.
Tutto questo è possibile – ed è il punto emotivamente più forte del film – perché i tre non sono mossi solo dal sentimento bello, ma anche chiuso, dell’amicizia virile. C’è una forza più potente che li spinge paradossalmente a non partire. Ed è l’amore: vuoi per una figlia ritrovata già grande, vuoi per un ragazzo straniero a cui donare i propri soldi per dargli un futuro, vuoi una misteriosa e bella signora che attende da giorni di essere abbordata la sera in un bar. In questa Roma romanticamente antimoderna si può restare, nonostante tutto, perché c’è speranza di ritrovare la donna che ha corrisposto l’attimo di un nostro sguardo. Alla fine il viaggio altrove non fallisce, ma è rimpiazzato da un viaggio in un altrove – o in più altrove – nel tempo, in uno spazio, Roma, che li può accogliere tutti.
Riferimenti bibliografici
G.G. Belli, Introduzione di G.G. Belli, in Sonetti, a cura di G. Spagnoletti, Rizzoli, Milano 1991.
W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995.
E. Garroni, Immagine Linguaggio Figura, Laterza, Roma-Bari 2005.
I. Insolera, Roma moderna, Einaudi, Torino 2011.
Lontano lontano. Regista: Gianni Di Gregorio; sceneggiatura: Gianni Di Gregorio, Marco Pettenello; fotografia: Gogò Bianchi; montaggio: Marco Spoletini; musiche: Stefano Ratchev, Mattia Carratello; interpreti: Gianni Di Gregorio, Ennio Fantastichini, Giorgio Colangeli, Roberto Herlitzka; produzione: Bibi Film, Rai Cinema; distribuzione: Parthénos Distribuzione; origine: Italia; anno: 2019.