Non tanto Houellebecq, la cui originaria inclinazione a forme di corrosivo romanzo-saggio (si pensi a Estensione del dominio della lotta e Le particelle elementari), dopo aver vieppiù rinunciato a esprimere un’effettiva densità concettuale e a concretarsi in saldi impianti diegetici (basti leggere, se non i comunque sghembi La possibilità di un’isola e La carta e il territorio, i furbescamente sciatti Piattaforma e Sottomissione), sembra essersi ormai ridotta alla qualunquistica logorrea di una reazionaria, sardonica voce narrante convinta di potersi apoditticamente pronunciare su ogni piega del presente (e Serotonina, ad oggi, è il culmine di tale parabola involutiva dell’autore francese). Il modello, anzi l’interlocutore, di Pecoraro pare piuttosto essere il Siti di Troppi paradisi, libro cui doveva già molto La vita in tempo di pace e che Lo Stradone aspira, per così dire, a oltrepassare.
Tra i due scrittori si nota infatti piena sintonia, quando essi interrogano, l’uno con debordante ironia tragica e l’altro con candido intellettualismo cinico, un tempo, il nostro, che a entrambi si rivela totalmente schiacciato sulla sua artificiosa, mediatica, agonizzante immanenza piccoloborghese. Quindi un tempo incapace di scommettere su inedite utopie emancipatrici e restio a rivisitare, senza strumentali pose vintage o gusto parodistico alcuno, quelle implicate dalle socialmente neglette “grandi narrazioni” novecentesche.
Così come, se non è lecito ritenere le due fluviali opere-mondo di Pecoraro nitidi esempi di auto-fiction, si può tuttavia sostenere che l’ordito formale della prima implica il continuo interscambio, o meglio la costante ibridazione, tra la vicenda biografica e le opinioni dell’autore, la voce e i giudizi del narratore, il flusso di azioni, pensieri e parole del protagonista. Laddove il resoconto storico-esistenziale in prima persona, propostoci dallo Stradone, ancor meglio fonde in un’unica maschera verosimile quelle tre identità. E ciò in nome di un’ulteriore scelta che il prosatore romano condivide con Siti: mettere la manipolazione iperrealistica, e in pari grado allegorica, dell’autobiografismo al servizio di una prepotente attitudine al romanzo-saggio.
Così, se La vita in tempo di pace conservava una pur plasticamente smontata e rimontata, quasi surrettizia, costruzione narrativa, che, nell’apparentarlo appunto al tuttavia più strutturalmente solido Troppi paradisi, ne irreggimentava, non sempre con profitto, la bulimica vocazione saggistica, il pressoché libero ma non anarchico dispiegarsi di quest’ultima diventa, nello Stradone, l’estroflesso principio architettonico del libro. Soluzione che magari non lo farà troppo amare dai feticisti di una forma romanzo anzitutto pensata quale svolgimento di un intreccio narrativo, e però che, oltre ad avvicinarlo a un altro lavoro di Siti, Il contagio, anche lo rende il testo meglio calibrato fra quelli fin qui licenziati da Pecoraro. Il cui più sicuro talento è quello di un iracondo, disilluso, persino prolisso saggista che veste sì, tutti assieme, i panni del sociologo e del critico della cultura, dell’antropologo e del testimone oculare, ma che, per dar corpo al suo discorso sul mondo, ha bisogno di misurare il presente, e la tenuta delle griglie interpretative ricavate dai vari saperi adibiti o dalle precipue situazioni esperite, sulle proprie più lancinanti ossessioni, ricorsivamente sondate col maniacale zelo dell’anatomopatologo.
Allargando lo sguardo per cerchi concentrici, La vita in tempo di pace vagliava, sia pure ellitticamente, il divenire di Roma, dell’Italia, dell’Occidente nel settantennio successivo alla Seconda guerra mondiale. La Città di Dio – «nauseabonda, inafferrabile, pericolosa, refrattaria ad ogni idea di ordine, di giusto, di ben fatto» – vi era considerata «un tutt’uno con la sua Chiesa», e quindi ligia all’identica «doppiezza cristianista» diffusa nel resto del Paese. A propria volta abitato da «peninsulari» divenuti «contemporanei senza essere mai stati moderni»; scopertisi d’un tratto liberi «di fare tutto»; pronti così a svilire «ogni usanza tradizionale», creduta «emblema di provincialismo, vecchiume, arretratezza, miseria»; ma infine solerti a rivalutare, con tribale particolarismo, un arcaico tornato di colpo in auge «sotto forma di citazione di se stesso». E ciò in un mondo via via ridottosi a «colonia americana».
Ad appannaggio di quella «Grande Classe Media Uniforme dell’Occidente Democratico» capace di inglobare «in sé tutte le altre classi» e di sospingere «gli emarginati» oltre i «confini del conglomerato sociale». A trionfo di un «falso-vero» in procinto di cedere il passo a un «falso-falso» che decreterà «la sostituzione della natura con una copia quasi perfetta». A «democrazia del denaro», ad «accettazione piena, senza riserve, dello stato delle cose» e persino a «guerra silenziosa di tutti contro tutti», in attesa dell’«Apocalisse» annunciata dal feroce dominio del capitale, abile ad azzerare «ogni modello, ogni appartenenza, ogni speranza discorde» (Pecoraro 2013, pp. 423, 419, 420, 91-92, 278, 142, 117, 145, 230, 226, 148).
E ciascuna di tali diagnosi s’irradiava, per così dire, dalla rievocazione delle peripezie di Ivo Brandani, l’antieroe di un libro perciò pensato al pari di un bilancio generazionale e che scorgeva, negli anni sessanta del secolo scorso, la più netta «frattura culturale» mai consumatasi tra genitori e figli. Da un lato, padri che, come quello di Ivo, erano stati fascisti e avevano combattuto in guerra più per conformismo e per costrizione che per convincimento; non erano poi necessariamente divenuti, a repubblica istituita, «anti-fascisti», spesso conservandosi anti-comunisti; avevano nutrito e sovente realizzato sogni di avanzamento sociale; incarnavano, per gli eredi, i dispotici garanti di quella ridda di «interdizioni, direttive, imposizioni, minacce» prevista da un ordine civile solo nominalmente democratico.
Dall’altra parte, giovani cresciuti nell’era della ricostruzione e del boom economico; percepitisi, già da ragazzi, come i virgulti di una nuova borghesia invitata a «prepararsi con fiducia a un avvenire» per sé «indiscutibile, sicuro, garantito»; pronti allora a contestare, da universitari, norme paterne considerate tanto retrive quanto liberticide, senza però capire che la propria eresia comunista, e il Movimento studentesco complessivamente inteso, si sarebbero presto rivelati merci ulteriori di un «neo-capitalismo» ormai «insofferente delle vecchie società gerarchico-autoritarie» e dunque sollecito, pur di riconfermarsi padrone, a legittimare nei cittadini pretese edonistiche e stili di vita ligi al consumismo. Di riflesso, figli che, divenuti classe dirigente e poi, come Ivo, settantenni, si sarebbero detti afflitti da un «senso della catastrofe», e avrebbero lamentato una crisi della civiltà e dell’agire politico quale il Novecento l’aveva concepito, da loro favoriti e, tuttavia, in piena falsa coscienza addebitati ai costumi delle nuove leve, accusate di badare «solo all’auto-accudimento» (ivi, pp. 239, 414-415, 432, 470, 355, 231, 9, 387).
Lo Stradone – che parimenti indaga il triplice sfacelo, anche urbanistico e ambientale, di Roma, dell’Italia e del mondo – non rettifica in nulla simili tesi fin troppo pasoliniane, ma s’incarica, piuttosto, di precisarle. Della nostra società, schizza allora un ritratto affine a quello abbozzato da Siti in un suo recente pamphlet, Pagare o non pagare, equiparandola a «un panino a tre strati»: sopra, i pochi che «hanno soldi e potere», per cui si concedono di non vivere «secondo le regole»; sotto, i tanti che, invece, le leggi le ignorano in quanto «poveri e emarginati e immigrati»; in mezzo, una massa «che disprezza gli indigenti anche se prova pietà e carità», che «ammira e invidia i facoltosi e i potenti», ma che somiglia a una «mucca da mungere», perché «produce risorse e ne cede la più parte» alla comunità.
E, nel soffermarsi ancora sull’identità «post-ideologica» dei giovani di oggi, su quel collasso della «cultura-cultura» da tutti ormai accettato, sulla nostra disponibilità a percepire «autentico» un reale interamente «contraffatto» o a «vivere senz’altro scopo che restare vivi» o a riscoprire il gusto di farci «carne da prete», Lo Stradone ugualmente nota che un simile, osceno presente è in prima battuta l’esito della graduale abiura degli elementi «di socialismo democratico» che le democrazie post-belliche occidentali avevano saputo «includere nei propri sistemi» (Pecoraro 2019, pp. 167, 388, 392, 415, 394, 418, 238).
Benché sia principalmente per rispondere a una domanda che Pecoraro sembra aver addirittura scritto il proprio libro: «Con l’essere, anzi col sentirsi comunisti», cosa possono ormai farci, in Occidente, quanti, per ragioni anagrafiche, quell’utopia magari scoprano solo ora o abbiano invece abbracciato tempo fa e visto, nel dopoguerra, via via mutarsi in «parte di un sistema» che, prima di condannarla all’attuale inanità simbolica, la contemplava nei «suoi meccanismi di ri-equilibrio»? E, per l’autore, non sussistono dubbi. Nell’era del «Ristagno», cioè di un «post-Novecento» simile alla «terra di nessuno di un secolo nuovo che sa di vecchio, che non comincia ancora» o che, qualora sia iniziato, non ci permette di intenderlo, per chi provenga da un’altra storia, e specie per chi si ostini a reputare un valore assoluto l’equità sociale, non si tratta di abiurare i propri principi, pur di scendere a patti col presente, né di pensarli fideisticamente capaci di modificare l’esistente. Si tratta solo di accettare la propria sterile condizione di desolato, quasi pittoresco rudere civile (ivi, pp. 143, 298, 255, 440).
Si peccherebbe d’ipocrisia, se ci si limitasse a rinvenire, in gridi di dolore analoghi a questo di Pecoraro, ambigue rese al pur condannato abominio. Talvolta, essi hanno infatti un merito. Ci ricordano che, senza condivisi sforzi teorici preliminarmente orientati a riformulare quel comune alfabeto di civiltà un tempo offertoci da tradizioni culturali ormai vilipese, ogni sopravvissuto desiderio individuale di giustizia può al massimo tradursi in nobile testimonianza etica, in impolitici gesti di decenza. Lo conferma la recente evoluzione del quadro politico italiano: solo l’insipienza tattica (o il calcolo strategico) dei vandeani stessi ha rinviato quell’ulteriore scivolamento nella barbarie che però, se non rimetteremo in circolo praticabili ipotesi di democrazia realmente partecipata, diverrà presto ineluttabile.
Riferimenti bibliografici
M. Houellebecq, Le particelle elementari, Bompiani, Milano 1999.
Id., Serotonina, La Nave di Teso, Milano 2019.
F. Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano 2013.
Id., Lo Stradone, Ponte alle Grazie, Milano 2019.
W. Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2006.
Id., Il contagio, Mondadori, Milano 2008.
Id., Pagare o non pagare, nottetempo, Milano 2018.