Anche in Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, una fra le più recenti fatiche archeologiche di Agamben, il filosofo è alle prese con una battuta di caccia all’impensato che si cela al di sotto di concetti e categorie della tradizione culturale occidentale. In questo caso la zona d’indistinzione sulla quale si concentrano le attenzioni di Agamben consiste nello spazio che sta fra il soggetto e le sue azioni. In ciò il testo si pone in continuità con le precedenti analisi agambeniane sulla “non coincidenza” con sé del soggetto, presenti in numerose pagine del progetto Homo sacer – come, ad esempio, la lunga riflessione su lingua e soggettività contenuta in Quel che resta di Auschwitz (1998).
Tale spazio rappresenterebbe la vertigine «del diritto, dell’etica e della morale religiosa dell’Occidente» (Agamben 2017, p. 52), dal momento che le fondamenta dell’edificio costituito da queste tre sono state edificate esattamente all’interno di questa fessura concettuale. Solamente una certa connessione del soggetto alle azioni che compie, infatti, ha permesso la nascita e lo sviluppo di un discorso che ha per fulcro la responsabilità.
Il primo capitolo del testo è così orientato verso una ricognizione del senso e delle implicazioni della colpa, in cui ci sembra d’intravedere la nozione a partire dalla quale può dipanarsi il resto delle argomentazioni. Interrogandone la struttura e le funzioni, infatti, il filosofo può leggere nella sua comparsa e nelle sue evoluzioni in seno alla tradizione giuridica, quel «rafforzamento del vincolo che lega l’agente alle sue azioni» (p. 21), compiuto attraverso un’interiorizzazione della colpa, la quale è dunque «spostata dall’azione al soggetto, che, se ha agito sciente et volente, ne porta l’intera responsabilità» (p. 22). Il dispositivo che permette il funzionamento della legge, della morale e dell’etica è quindi illustrato da Agamben ricorrendo a due termini chiave: Crimen e Karman.
Crimen è un vocabolo latino che indica «un’azione, in quanto è sanzionata»(p. 45) ovvero sia «la forma che l’azione umana assume quando è imputata e chiamata in causa nell’ordine della responsabilità e del diritto» (p. 46). Ma, fa notare Agamben, Crimen è anche riconducibile a Karman (in sanscrito “opera” in generale) parola che, nella cultura indiana, rimanda alla dottrina buddhista secondo la quale il «mondo retto dalla legge del karman, costituito, cioè, dall’infinita connessione degli atti e delle loro conseguenze, è, pertanto, un “fare concatenato”» (p. 49).
La possibilità stessa di una tale dottrina, in cui ogni atto è causa di certe conseguenze, dev’essere spiegata, secondo Agamben, col fatto «che karman significhi crimen, che vi sia, cioè, qualcosa come un’azione imputabile e produttrice di conseguenze»(p. 50). In questo modo, il filosofo può ravvisare nella nozione di karman/crimen la categoria fondamentale di «qualcosa come un’etica indoeuropea» (p. 51).
L’autore procede così col fornire una dimostrazione della produttività argomentativa di questa intuizione: essa pare in grado di spiegare molte fra le differenti strategie e le diverse articolazioni, attuate nel corso della storia del pensiero occidentale, per inquadrare la relazione tra il soggetto e le sue azioni, con particolare riferimento ai concetti di potenza e volontà che rappresentano le figure maggiori. Nel pensiero greco antico, infatti, il legame tra l’azione e il soggetto, l’imputabilità della prima al secondo, sembra risiedere nella potenza, e non nella volontà, di agire: «nel mondo antico […] l’uomo non è responsabile dei suoi atti perché li ha voluti, ne risponde perché ha potuto compierli» (p. 55).
Al contrario, Agamben individua nell’avvento della teologia cristiana l’evento a partire da cui è costantemente promossa una triplice strategia volta a rovesciare i termini della questione e ad affermare, così, un «primato della volontà sulla potenza» (p. 87). Le tre mosse che compongo tale strategia consisterebbero nella separazione della potenza dall’atto; nella trasformazione del suo carattere necessario in una circostanza contingente e determinata dal libero arbitrio; e, infine, nella limitazione del suo carattere incondizionato, ciò al fine di renderla governabile attraverso un atto di volontà (cfr. ibidem).
Tuttavia, nella prospettiva di Agamben questa differenza è riassorbita dalla coppia concettuale crimen/karman. Sia nel mondo classico che in quello cristiano, infatti, è sempre l’idea di un’azione sanzionabile a giustificare queste distinte concezioni. In riferimento al primo, l’autore chiama in causa la tragedia greca: essa ci presenta una serie di personaggi interiormente lacerati poiché, pur agendo senza la volontà di compiere delitto (valga come esempio l’inconsapevolezza di Edipo), sono giudicati e incolpati in base a ciò che hanno comunque potuto compiere (cfr. p. 60). Similmente, il lungo capitolo intitolato Le aporie della volontà si focalizza sul modo in cui all’interno del mondo cattolico la volontà abbia rappresentato un dispositivo «volto impietosamente ad assicurare la responsabilità delle azioni umani» (p. 84).
È a questo punto che Agamben approda finalmente a teorizzare la necessità di «pensare in modo nuovo la relazione, o la non-relazione, tra le azioni e il loro supposto soggetto» (p. 128). Passando in rassegna teorie e critiche delle idee di fine e finalità, si tenta di mostrare come il soggetto dell’azione non sia altro che «l’ombra portata che il fine getta dietro di sé» (p. 127). Una possibilità di articolare diversamente tale rapporto, dunque, è scorta e sviluppata a partire dall’idea benjaminiana di una politica dei mezzi puri (cfr. pp. 132-135).
Così, poiché la «archeologia della soggettività non può essere soltanto gnoseologica» ma dev’essere «innanzi tutto, pragmatica» (p. 127), è in direzione di una teoria alternativa dell’agire che allude la parte conclusiva del testo, laddove Agamben ci parla del gesto, presentato efficacemente con il seguente esempio:
come […] la danza è la perfetta esibizione della pura potenza del corpo umano, così si direbbe, nel gesto, ciascun membro, una volta liberato dalla sua relazione funzionale a un fine – organico o sociale –, possa per la prima volta esplorare, sondare e mostrare senza mai esaurirle tutte le possibilità di cui è capace (ibidem).
Il gesto, agli occhi di Agamben, rappresenta una “terza via” rispetto a un «fare che è sempre un mezzo rivolto a un fine – la produzione – e l’azione che ha in se stessa il suo fine – la prassi» (p. 138). Esso, dunque, è interpellato come rappresentazione e testimonianza di un’idea già apparsa ne L’uso dei corpi: l’inoperosità. Il gesto, infatti, spezzando la concatenazione che inchioda il soggetto alle azioni, appare come un atto impersonale che apre le azioni umane «a un nuovo, possibile uso» (ibidem).
A questo punto, ci riserviamo qualche considerazione finale a proposito di questo libro. Se, da una parte, Karman riesce a coinvolgere facilmente il lettore grazie al fascino e all’acutezza interpretativa delle analisi di Agamben, dall’altra suscita, però, più di un interrogativo.
È indubbio che l’idea di una separazione tra il soggetto e le sue azioni, che lo concatenano al mondo e lo rendono luogo d’imputazione, possa funzionare come chiave interpretativa suggestiva, e a tratti anche efficace, per leggere le molteplici modalità d’inquadramento della relazione tra l’essere umano e il suo mondo, e per aprire uno spazio inedito di riflessione a partire da cui proporre nuove forme di sviluppo di questa relazione.
Ciò che non ci pare sufficientemente esplicitato, però, è il rapporto tra le diverse modificazioni del pensiero (filosofico, giuridico, morale, religioso, ecc.) prese in esame da Agamben e le trasformazioni storicamente determinabili a cui pure quelle devono essere connesse (e ciò, beninteso, non esclusivamente o semplicemente in senso causale). Da dove proviene, ad esempio, la necessità di intrecciare il più possibile il soggetto e le sue azioni? Perché la costruzione di una morale religiosa come quella cattolica si attua seguendo le vie descritte da Agamben e non altre diverse?
Ci sembra che, in proposito, il testo si limiti a suggerire soltanto alcune correlazioni, senza soffermarsi abbastanza sulla “materialità” dei processi che le hanno dettate: un’archeologia senza genealogia, potremmo dire, che rischia di scivolare nell’arbitrarietà.
Il presupposto “implicito” di ciò è ravvisabile, a nostro avviso, in quella “sospensione” del dispositivo dei mezzi e dei fini operata dal gesto: quest’ultimo appare come manifestazione del mistero dell’agire umano (cfr. p. 136). Ciò che bisognerebbe allora specificare è se tale mistero cambi o meno con il susseguirsi dei processi storici e a seconda della prospettiva attraverso cui si guarda al soggetto, o se, invece, il mistero dell’agire umano sia una costante senza relazione con l’avvicendarsi delle pratiche di soggettivazione.
Una tale chiarificazione renderebbe conto anche delle varie forme che il gesto ha assunto, assume e potrà assumere; lo indurrebbe al movimento, evitandogli di restare immobile, pietrificato e inefficace di fronte alla storia; permetterebbe di tradurre il discorso di Agamben, presentato come una politica dei mezzi puri, in una politica dai mezzi effettivi.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Karman. Breve trattato sulla colpa, l’azione e il gesto, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
Id., L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014.
Id., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
W. Benjamin, Per la critica della violenza, tr. it., in Angelus Novus. Saggi e Frammenti, Einaudi, Torino 1994, pp. 5-30.