Nel linguaggio cinematografico, la profondità di campo indica tradizionalmente la distanza tra il punto più vicino e quello più lontano della scena inquadrata. Una tecnica che affonda le radici nel Cinematografo dei fratelli Lumière, in cui tutti gli elementi sono a fuoco, sia il primo piano sia lo sfondo più distante. D’altra parte, com’è noto, la profondità di campo contribuisce a rallentare il ritmo della narrazione, rendendo complessa la visione: inquadrature lunghe e profonde, piene di oggetti e personaggi, offrono allo spettatore l’opportunità di soffermarsi su motivi diversi, dando origine a un’idea di cinema fondata sull’osservazione e la contemplazione (Bernardi 2007, p. 61). 

Se tale stratagemma si traduce in un fotogramma in cui, dal primo piano allo sfondo, tutto appare perfettamente nitido sullo schermo, gli scritti di Maurizio Grande sulla settima arte, raccolti nel volume Il cinema in profondità di campo (Bulzoni, 2003) a cura di Roberto De Gaetano, rappresentano un’opera di messa a fuoco degli studi sulle immagini in movimento, organizzata secondo autori e paradigmi interpretativi differenti. In questa direzione, il contributo offerto dallo studioso italiano si rivela proficuo non soltanto per ricostruire l’intricato sviluppo delle teorie in Italia dalla fine degli anni sessanta, ma anche per continuare a riflettere sul cinema inteso come forma del pensiero. L’iter seguito da Grande prende avvio dal modello strutturalista di Louis Trolle Hjelmslev, incentrato su un’analisi scientifica del linguaggio, per approdare, nell’ultima fase del suo insegnamento, all’estetica di Gilles Deleuze: un vero e proprio punto di svolta che segna l’impossibilità di continuare a «pensare il cinema con gli strumenti concettuali delle teorie “classiche”» (Grande 2003, p. 425).

Negli anni ottanta si assiste, in Italia, alla diffusione dei testi, L’immagine-movimento. Cinema 1 (1983) e L’immagine-tempo. Cinema 2 (1985), momenti culminanti di una più ampia ricerca sulle immagini condotta dal filosofo francese: dalla pittura di Francis Bacon al cinema di Ozu Yasujirō, il significato dell’estetica di Deleuze coincide, infatti, con una critica del paradigma mimetico-rappresentativo, al quale si sostituisce l’affermazione di una pura potenzialità dell’immagine. Il nucleo dell’indagine sulla settima arte condotta dal pensatore francese risiede in una lettura cinematografica dei concetti di tempo e movimento, individuando nella filosofia di Henri Bergson una delle principali fonti d’ispirazione. In tal senso, sia il cinema sia la filosofia hanno a che fare con il movimento nella coscienza: mentre il primo si manifesta attraverso le immagini, la seconda si esprime mediante i concetti. Rivelando la propria convergenza con il movimento, l’immagine si configura come una ricostituzione cinematografica della realtà: «Il cinema, secondo Deleuze, produce immagini-movimento e non immagini della realtà con in più l’illusione del movimento» (ivi, p. 419).

 A questo incontro tra autori interessati ad approfondire la capacità dello sguardo di farsi interrogazione sul mondo, è possibile aggiungere un’altra figura, che risponde al nome di Sergej Michajlovič Ejzenštejn. Proprio alle teorie elaborate dal cineasta-scrittore, Maurizio Grande rivolge un’attenzione precipua, soffermandosi in particolare sull’idea del montaggio come «sistema di immagini speciale» (ivi, p. 119), capace di contenere al suo interno elementi e forme divergenti. Il montaggio rivela una natura antropologica, che concerne la stessa esperienza umana: come negli abissi remoti della psiche e nei sogni, elementi contraddittori si ritrovano a convergere, confondendosi e sovrapponendosi tra di loro, così l’immagine non rappresentativa (obraznost’) diviene emblema di un’unità che comprende spazi, tempi e pulsioni, voci e ricordi, principi consci e inconsci, producendo sensi sempre nuovi, non predeterminati.

Emerge, da questi brevi riferimenti, la vocazione profondamente teorica dell’intero lavoro condotto da Ejzenštejn, proteso a creare connessioni tra tasselli diversi per giungere alla costruzione di un’immagine in grado di esprimere idee, pensieri e concetti (Ejzenštejn 1986, p. 35). Se l’autore sovietico fornisce elementi innovativi per un’analisi della settima arte non limitata all’influsso della semiotica, il pensatore francese appare rivoluzionario per aver sottratto la filosofia dalla sua tradizionale sfera d’influenza, intravedendo nell’immagine cinematografica una forma del pensiero. Il percorso seguito da Maurizio Grande attorno a questi autori si propone allora come un’originale linea di congiunzione tra due grandi orientamenti teorico-critici: da un lato, quello rappresentato da Ejzenštejn, ben saldo sulla centralità dell’elemento formale, riconducibile a un orizzonte razionalista, che trova un alleato filosofico nella figura di Galvano Della Volpe, dall’altro quello simboleggiato da Deleuze, incentrato su un’idea di cinema che non mira semplicemente a «riprodurre o a inventare delle forme, ma a captare delle forze» (Deleuze 1995, p. 117), i cui principi ispiratori sono rintracciabili, ad esempio, nelle opere di Jean Epstein, Edgar Morin e Antonin Artaud.

Ad ogni modo, queste due prospettive non devono essere intese alla stregua di strutture rigide entro cui muoversi faticosamente, rappresentando, al contrario, cornici teoriche aperte. Tenendo sullo sfondo tale convinzione, Maurizio Grande coglie e mette insieme alcune forme concettuali, tra cui la narrazione, la poesia, la scrittura e la composizione per inventare nuove figure. Si pensi, ad esempio, all’idea di “immagine non derivata”, utilizzata dallo studioso italiano per descrivere quelle rappresentazioni che «non vengono assegnate a un personaggio secondo gli schemi (e le forme drammaturgiche) della percezione, del ricordo, dell’immaginazione» (Grande 2003, p. 429). L’immagine è così svincolata da un supporto specifico, lasciando il personaggio in balìa di un mondo fluttuante fondato sull’evanescenza del sogno e della memoria.

Una determinata accezione dell’immagine cinematografica conserva, allora, l’unità della totalità, consentendo di conoscere il mondo anche sotto l’aspetto del sentimento e non solo come espressione ordinata di discorsi logico-razionali. Da questo punto di vista, come afferma precisamente De Gaetano nel saggio introduttivo, è possibile individuare negli scritti di Grande due aspirazioni diverse, eppure interconnesse: la prima ruota intorno ai temi, approfondendo, in particolare, il significato dell’icona, il rapporto tra il cinema e il teatro, il valore del montaggio, senza tralasciare il ruolo assunto dal discorso critico, la seconda chiama direttamente in causa gli autori, tra cui spiccano, oltre a Ejzenštejn e  Deleuze, Pier Paolo Pasolini e Rudolf Arheim, Roland Barthes e Edgar Morin (De Gaetano 2003, p. 9). Gli scritti e gli interventi di Maurizio Grande si presentano, in questo senso, come tante tessere di un unico mosaico, che lascia emergere la consustanziale impurità del cinema e la sua abilità di mescolare elementi eterogenei. 

L’ibridazione contenutistica che contraddistingue l’opera dello studioso italiano trova una compiuta esemplificazione nella seconda sezione del volume dedicata al racconto, alla narrazione e alla scrittura, al cui interno la settima arte assume i contorni di un dispositivo che «racconta con l’inquadratura e narra con il montaggio» (Grande 2003, p. 93). Si tratta di una lettura originale, capace di conferire unitarietà a studi dal carattere lacunoso e frammentario, focalizzati alternativamente sull’una e sull’altro. Eppure, il cinema si propone come una sintesi di entrambi gli elementi: se l’inquadratura rende possibile un peculiare assetto d’immagine-movimento, il montaggio pone in relazione lo spazio e il tempo. La pellicola acquista così le caratteristiche di un «volume narrativo» (ivi, p. 111), che raccoglie una serie di fenomeni discorsivi messi in ordine dal montaggio secondo un’autentica “drammaturgia del concetto”, fondata sull’identità tra la realtà e l’immagine cinematografica. Nel saggio che chiude il volume, dedicato proprio all’estetica di Deleuze, il cinema è allora inteso come luogo espressivo di un’immagine filmica, la cui specificità consiste nel mostrare «una realtà-spettacolo senza tracciare una distinzione tra l’oggettivo e il soggettivo, fra la percezione attuale e il ricordo, fra visione e azione» (ivi, p. 429). 

L’itinerario condotto da Grande offre, peraltro, una lente attraverso cui osservare il legame tra il cinema e le arti. Un esempio, in questa prospettiva, è rappresentato dal saggio intitolato L’interpolazione tra cinema e pittura, incentrato su un’inedita lettura della pellicola L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Nelle pagine introduttive del volume L’immagine-tempo, Deleuze coglie nell’opera dell’autore italiano un métissage indistinguibile tra reale e immaginario. Il filosofo francese imputa questa caratteristica non soltanto alle ampie inquadrature, ma anche ai relativi movimenti della macchina da presa che seguono l’erranza dei personaggi nello spazio, offrendo una testimonianza dei loro moti interiori. A questo quadro Maurizio Grande aggiunge un elemento in più: nel cinema di Antonioni l’inquadratura è la tela dipinta che coglie l’immagine-movimento momentaneamente sospesa.

Paradigmatico si rivela, in tal senso, il celebre finale della pellicola, «costituito da una serie d’inquadrature prelevate da un “grande tutto”: l’Eur» (ivi, p. 166). Dopo la promessa di un nuovo incontro né Vittoria né Piero decidono di presentarsi all’appuntamento. I viali del quartiere di Roma in cui i due erano soliti passeggiare insieme sono ora attraversati da altre figure: una signora che spinge la carrozzina, un calesse, una coppia che cammina a braccetto, alcuni ragazzi che scendono dall’autobus. Le sequenze finali trasmettono così allo spettatore una sensazione d’inquietudine: è l’eclisse dei sentimenti, quella messa in scena da Antonioni, ma è anche l’immagine di una società industrializzata, distaccata e impersonale, che sembra non lasciare alcuno spazio all’autenticità degli affetti. Queste sequenze costituiscono, secondo Grande, una serie di quadri che si configurano come sistemi finiti di uno spazio aperto e indipendente. L’immagine è allora definita dallo studioso italiano come il grande fuori-campo della pittura: l’apertura dello spazio non filmato rappresenta il cinema nella sua interezza, ossia «l’immagine-movimento come variazione di una materia ottica percettiva determinata» (ibidem).

La sensibilità speculativa che contraddistingue la ricerca di Maurizio Grande offre fruttuosi elementi di analisi non soltanto sul piano teorico, ma anche dal punto di vista critico. In questa direzione, proprio il ruolo del critico-teorico, che sembra descrivere la figura poliedrica dello studioso italiano, vede un antesignano in Pier Paolo Pasolini, tra i primi a manifestare l’esigenza di una teoria «rivolta più al discorso del film che al problema del linguaggio cinematografico» (ivi, p. 349). Per il cineasta-scrittore, del resto, esiste un’analogia espressiva tra la realtà e le immagini in movimento: le seconde riflettono abilmente l’autenticità della prima. Grazie al contributo offerto da Pasolini, anche nell’ambito degli studi teorici si comincia ad attribuire un valore preminente all’enunciazione e non al codice, allo stile dell’autore rispetto al più generico linguaggio cinematografico. Su questa lunghezza d’onda, Pasolini produce materiale cinematografico che diviene espressione distintiva di «un modo di filmare in cui si afferma il “doppio stile” dello sguardo sulla realtà filmata e del linguaggio dell’autore» (ivi, p. 350).

Comincia gradualmente a emergere un nuovo equilibrio di rapporti in cui la forma non è più preminente rispetto allo stile, come accade nel cinema classico, ma svolge una funzione differente: è il modo in cui «uno stile, una tecnica, un registro espressivo adottano certe tematiche e non altre proprio per “intonare”, quasi in senso musicale, un contenuto e accordarlo con una forma» (ivi, p. 353), a costituire la caratteristica fondamentale del cinema moderno. Il percorso variegato tracciato da Maurizio Grande nei suoi studi si contraddistingue per l’incontro continuo di forme e forze. La loro azione combinata porta a ripensare la teoria del cinema, mettendo in luce come, attraverso le immagini in movimento, sia possibile costituire un amalgama di arte, linguaggio e realtà. Attraverso questa chiave interpretativa, lo studioso italiano indaga le forme della creatività intravedendo nei paradigmi narrativi di ogni esperienza artistica, dal cinema al teatro, dalla poesia alla pittura, originali vie di accesso al reale: l’oggetto artistico, considerato nella sua singolarità, contiene un nucleo di senso che corrisponde a una precipua rappresentazione del mondo

Prendendo avvio da tale impostazione metodologica, Maurizio Grande scorge nel dinamismo del pensiero un’inestinguibile fonte di arricchimento, senza tuttavia incorrere in forme di confusione tra piani teorici ed espressivi. Un’aspirazione che si rivela direttamente connessa alla capacità del cinema di interagire con altre esperienze artistiche, combinando linguaggi differenti. Proprio questi ultimi consentono la convergenza in modo simultaneo di elementi opposti e inconciliabili secondo il pensiero logico-razionale: presenza e assenza, realtà e finzione, forma e caos, continuità e discontinuità, visione e pensiero. Ed è questo il grande limite e, al contempo, l’estrema ricchezza dell’arte cinematografica, in cui il finito e l’infinito convivono. In quest’ampia cornice, l’antologia di scritti offerta da Maurizio Grande dischiude un’opportunità per la ricerca filosofica, rispondendo così all’invadenza pervasiva delle immagini trasmesse dai media (Daney 1997, p. 287). Un’occasione preziosa che rivela al tempo stesso un’esigenza profonda: il desiderio di continuare ad abitare creativamente lo spazio del cinema, lo spazio della teoria.

Riferimenti bibliografici
S. Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Marsilio, Venezia 2007. 
S. Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, Il Castoro, Milano 1997.
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995.
S.M. Ejzenštejn, Drammaturgia della forma cinematografica (L’approccio dialettico alla forma cinematografica), in Id., Il montaggio, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1986.

Maurizio Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura e con introduzione di Roberto De Gaetano, Bulzoni, Roma 2003.

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