Quella che Ermanno Migliorini, che è stato filosofo e professore ordinario di Estetica presso l’Università degli studi di Firenze, ha tentato ne Lo scolabottiglie di Duchamp è, potremmo dire, un’analisi dello statuto dell’artisticità del suo tempo. Un’artisticità inclinata, per certi versi sospesa, al di fuori del recinto sacro dello spazio espositivo. Quella delle neoavanguardie è la mimesi di un’operazione di riduzione alla ricerca dello zero della significazione. «Il passaggio della non-immagine e non-forma a segno non-significante è già avvenuto», scrive Cesare Brandi (1961, p.147) a proposito dell’informel.

Il contesto storico-artistico dell’autore, la Minimal Art, ma in generale l’arte internazionale del secondo Novecento, è vicina a quell’operazione terminale avviata da Duchamp quasi cinquant’anni prima. Si tratta dell’esito di un percorso che prende l’abbrivio dal “caso” duchampiano dello scolabottiglie. Lo conosciamo: siamo all’alba del readymade, dell’arcinoto gesto di selezione e traslazione di un oggetto comune del mondo all’interno del perimetro sacro dello studio di Duchamp. Gesto istituente, quanto mai ironico e tuttavia decostruttivo, «una messa in questione burlesca» (Migliorini 2023, p. 38) di quel valore auratico e cultuale di cui parlerà Benjamin. Atteggiamento «fieramente anestetico» (ivi, p. 10) come ricorda Roberto Paolo Malaspina nella prefazione al testo.

Non si tratta però, nel testo di Migliorini, di indagare quel caso paradigmatico, bensì di chiarire quali sfide ha posto e pone ancora, forse, l’atteggiamento iconoclasta di Duchamp. Cosa istituisce il valore estetico-artistico dello scolabottiglie? Quali pretese mette definitivamente sotto scacco? Migliorini tenta di rispondere a queste domande armandosi del solido apparato analitico, inevitabilmente chiamato in causa quando si tratta di discernere il confine di concetti e definizioni, di giustificarne le ragioni, quando e se ce ne sono. È il caso della nozione di “arte”, come di quella di “opera d’arte”, dell’accettazione del suo valore: evidente di per sé, intuitivo, o inserito in una ferrea assiologia? Quello che il readymade provoca è la messa a nudo dei procedimenti valutativi artistico-critici. Il finale nihilismo protodadaista di Duchamp non voleva probabilmente dire altro che questo, coinvolgere la primarietà dell’investimento di valore artistico, la sua relativa immotivabilità, ma anche estendere la qualità di ciò che è degno di una considerazione di tipo estetico-artistico non soltanto alle cose stesse ma a tutte le cose cui lo sguardo privilegiato dell’artista si volgesse, e questo non con qualche interesse ma in assoluta indifferenza (ivi, p. 39).

Ciò che l’artista ha voluto mettere in questione è il tentativo della critica di costruire su quegli oggetti un discorso che facesse uso di ragioni. Come racconta esemplarmente l’avventura dell’orinatoio firmato R. Mutt che, apparso davanti allo sguardo inorridito di George Bellows, fu definito “indecente” e, allo stesso tempo, fu ambiguamente valutato a partire dai suoi valori cosiddetti plastici, la critica è posta su di un terreno altamente sismico. E Duchamp se ne era accorto assai bene. Ogni forma di fruizione in senso tradizionalmente estetico, cercata disperatamente dai sostenitori di Duchamp, era stata respinta dall’artista, che «non voleva sentir parlare di “ritmo” dello scolabottiglie, o dell’”eleganza” della ruota di bicicletta, e così via» (ivi, p. 42). La rilevanza artistica del readymade poteva essere solo accettata o rifiutata, riconosciuta “evidente di per sé”. È con Moore che Migliorini, tentando un accostamento irriverente, legge la natura auto-evidente della valutazione estetica dell’opera d’arte. Potremmo dire che Moore aveva lucidamente dichiarato, per quanto concerne l’etica, e con undici anni di anticipo, ciò che Duchamp tentò non di dichiarare ma di mostrare con i suoi readymade, e a cui lo stesso Duchamp tentò di alludere con le sue un po’ folli definizioni dell’arte (ivi, p. 46).

Secondo Moore non possiamo provare cosa renda una proposizione “etica” poiché non ne conosciamo la natura. Il dilemma mooriano del valore si configura nell’oscillazione del buono tra dipendenza e indipendenza da altri valori e qualità. Trasposto in campo estetico il dilemma è lo stesso per Migliorini: l’investimento estetico artistico è una proprietà indipendente dell’oggetto-opera d’arte o è secondaria ad altre? Il blocco dei capitoli centrali del lavoro di Migliorini prende in esame questi due possibili corni dell’oscillazione, considerati rispettivamente come schemi di valutazione A1 e A3: evidenza o dipendenza del valore? Da un lato ci troviamo nell’ambito dell’intuizione, che agisce in modo imprevedibile, tendenzialmente rifiutando qualsiasi aggiunta di ragioni o prove, e tuttavia un’intuizione tale da comprendere una razionalità implicita, assiologica, che possa essere compatibile con le premesse generali di quello che Migliorini chiama lo «stile accademico». D’altra parte, siamo invece inseriti in un sistema organizzato e stabile in cui le connessioni sono determinate da regole rigide, un «reticolato di categorie che vigono nell’assiologia materiale dell’oggetto artistico» (ivi, p. 104). Queste due strutture valutative coesistono, è evidente, in una sistematica frizione che non può che produrre dei drammi. Quella che emerge è una dissociazione fondamentale del sistema di valutazione.

È in questo senso che i readymade hanno sempre rappresentato un limite, come uno «scomodo campione per la coscienza artistica del secolo» (ivi, p. 108). L’intento di Duchamp è stato quello di «voler inserire – contraddittoriamente ma con buone ragioni – un oggetto qualsiasi, magari anche di bella forma in un contesto di oggetti rigorosamente selezionati secondo certe regole e principi generali» (ivi, p. 109). Da una parte, di nuovo, la possibilità legittima di eleggere senza alcuna motivazione un oggetto a valore artistico, dall’altra l’istituzionalismo del perimetro della mostra che si richiama a valori prestabiliti e determinati. Un aspetto interessante messo in luce da Migliorini è la necessità, di Duchamp, di rimanere all’interno del recinto sacro dello spazio espositivo, per metterne in scena le contraddizioni. Egli decise infatti, com’è noto, di «non ripetere indiscriminatamente questa forma di espressione ma di limitare a un modesto numero di pezzi la produzione annuale dei readymade» (ivi, p. 110). La sua è una mimesi dell’artista e del fare artistico, una provocazione che però è tutta contenuta all’interno di un certo quadro di valori artistici: «In fondo non fa che portare al paradosso, all’autocontraddizione, certe premesse dell’estetica del suo tempo» (ibidem), prendendo a prestito i gesti dell’artista, svuotandoli di significato. È il paradosso istituito dal gioco, si può barare solo giocando.

L’operazione duchampiana resta, però, solo un primo gradino «del percorso verso una dissacrazione definitiva della nozione di arte» (ibidem). Cosa avviene dopo? È su questo tema che, con un’analisi estremamente lucida, l’autore conclude il suo lavoro. Per quanto sia possibile rintracciare differenze, direttrici per certi versi opposte ed escludenti, l’arte contemporanea si rivela a Migliorini come una fuga dalla stessa artisticità, verso cosa? Verso una pura esperienza sensibile dell’opera. Si tratta di lavori, che siano di Warhol o di Tony Smith, che si configurano come esercizi destinati alla sola sensibilità. Pure forme prive di significato. È qui che allora la critica, nel 1970 ma forse anche oggi, è chiamata a dire di più. «Mai l’arte è dipesa dalle parole più che in queste opere impegnate in una materialità silenziosa» (Rosenberg 1968, p. 306). Oggi, circa cinquant’anni dopo il lavoro di Migliorini, e più di cento anni dopo il “caso” duchampiano, è necessario che un nuovo apparato critico strutturi la possibilità di leggere un presente sempre più rapsodico e frammentato, piegato dalle logiche di un imperante mercato dell’arte. Lo scolabottiglie di Duchamp si rivela, nella sua inattualità, come uno strumento assolutamente attuale per gettare una luce sulle necessità del nostro tempo.

Riferimenti bibliografici
C. Brandi, Non segno e non significato, in “L’informale. Il Verri”, n.3, 1961.
H. Rosenberg, Defining Art, in Minimal Art. A Critical Anthology, a cura di G. Battcock, E. P. Dutton & Co, New York 1968.

Ermanno Migliorini, Lo scolabottiglie di Duchamp, Johan & Levi Editore, Milano 2023.

Tags     arte, Duchamp, ready made
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