È forse destinato al fallimento un tentativo di condensare, in poche battute, i rapporti che il cinema intrattiene con la pittura. Che intrattiene da quale momento, precisamente? Dalla sua nascita? Quindi a partire dal rapporto tra, per esempio, i Lumière e Manet? E, inoltre, da quale punto di vista? Trattare quel rapporto dal punto di vista della composizione dell’immagine, quindi dell’inquadratura, o dell’utilizzo del colore?
Lo studio della composizione dell’immagine cinematografica conduce spesso a interrogarsi sulla pittura e sulle sue componenti fondamentali, ad esempio il colore. Un’interrogazione sul colore al cinema non deve necessariamente riferirsi alla pittura; tuttavia, è possibile immaginare che nelle occasioni in cui si riflette sul colore al cinema, qualcosa propriamente insorga: forse la pittura è l’origine rimossa del cinema – sussurrerebbe anche Godard.
Sono innumerevoli i cineasti che si sono occupati del rapporto tra la pittura e il cinema, o anche solo del colore – o del quadro – come suo rimosso (Wiene, Godard, Pasolini, Antonioni, Kurosawa…); così come sono diversi gli studiosi di cinema che lavorano su quel rapporto, o sul colore o sul quadro che richiamano quel rimosso: Jacques Aumont, Luca Venzi, Federico Pierotti; e per accennare ancora a chi, nel panorama italiano, lavora, tra altri, sul rapporto tra il cinema, la pittura e, in generale, le arti visive, cioè Antonio Costa, di cui un intervento appare anche nel bel volume collettaneo Cinema/Pittura – Dinamiche di scambio (De Franceschi, 2003).
Benché quei rapporti siano stati molto studiati dal punto di vista della composizione dell’immagine cinematografica, permane, però una lacuna a livello storico, su cui lavora Stefano Curone nel volume Lo schermo dipinto. Storia della pittura al cinema, da Giotto a Warhol (Edizioni Sabinae, 2024).
I rapporti tra cinema e pittura costituiscono un nodo significativo della discussione teorica sul linguaggio filmico, ma questo testo non si propone di fornire un ulteriore contributo alla già imponente saggistica dedicata all’argomento. Generalmente, gli studi di settore si sono concentrati sulle affinità strutturali fra i due linguaggi, sui riferimenti di natura pittorica presenti nei film e sui lavori cinematografici sperimentali, questi ultimi, in molti casi, realizzati in prima persona da pittori, fotografi o video-artisti. «Qui si è scelto di trattare un tema ancora vergine: la storia della pittura e dei suoi artefici quale soggetto specifico, o comunque privilegiato, della narrazione cinematografica» (Curone, 2024, p. 7).
Nell’introduzione al suo testo, Curone esplicita che il suo obiettivo è la creazione di «una rassegna di carattere sistematico, dedicata alla storia della pittura raccontata dal cinema», ossia di uno «strumento di consultazione sull’argomento, mai trattato prima d’ora in maniera specifica» (ibidem). Il tentativo di «tracciare una storia trasversale della pittura attraverso la narrazione cinematografica, dal Trecento di Giotto fino ai giorni nostri» (ibidem), si dipana per diciotto capitoli e un’appendice, in cui Curone studia settantadue film, creati tra il 1935 e il 2020, prendendo in esame i lungometraggi di fiction dedicati alla pittura e «distribuiti in Italia e ancora reperibili. Fra i titoli compaiono anche quattro brevi episodi filmici, inseriti nella rassegna perché facenti parte di altrettanti lungometraggi. Non vengono contemplati, invece, i cortometraggi propriamente detti, i documentari e i film d’animazione» (ibidem).
La necessaria cernita dei film esaminati è dettata dalla proliferazione, in particolare dagli anni Novanta in poi, di trasposizioni biografiche o biopic – che è «il più tipico approccio cinematografico alla materia storica» (ivi, p. 9) – dedicati a pittori visti come possibili «“eroi” cinematografici» (ibidem). Critico nei confronti della «formula del biopic», che «comporta alcuni limiti strutturali, difficilmente emendabili: spesso i film di fiction indugiano su una descrizione fenomenologica della biografia del protagonista, prescindendo dal suo contributo alla storia della pittura» (ibidem), Curone nota che i film maggiormente riusciti sul tema sembrano quelli che sfuggono alle regole di quel genere, conducendo registi e sceneggiatori a farsi coinvolgere non solo dalle personalità degli artisti su cui lavorano, ma soprattutto a farsi quasi “plasmare” dalla stessa materia della pittura.
Ogni capitolo segue in maniera originale l’andamento cronologico della storia della pittura, elaborando coppie di artisti “in conflitto”, operanti in diversi periodi e in diverse parti del mondo (Van Gogh/Gauguin; Klimt/Schiele); focalizzandosi su un unico artista (Rublëv; Goya); soffermandosi sugli “artisti primitivi”, e considerandoli oltre lo stigma dell’infermità mentale (Séraphine de Senlis, Ligabue, Maud Lewis, Christy Brown). Muovendosi dall’Italia alla Francia; dall’Austria al Messico, Curone non dimentica l’Oriente, a cui dedica la preziosa appendice, in cui protagonisti sono Kitagawa Utamaro e Jang Seung-eop.
Che la composizione del testo di Curone vada ben al di là di un’impostazione rigidamente manualistica, è attestato non solo dal frequente e attento scavo critico del biopic, ma anche dall’originale elaborazione dei temi e dei personaggi scelti per la costruzione di ciascun capitolo; quindi dal movimento stesso di ogni capitolo: difatti, dopo un breve inquadramento storico dei pittori o delle pittrici a cui dedica la sezione, presenta il film preso in esame, indagandolo dal punto di vista del racconto e dell’iconografia, per poi aprirsi a delle considerazioni, e infine citando «altri film» non esaminati nello specifico.
Le considerazioni su ogni film rendono il lavoro di ricostruzione della storia della pittura al cinema fortemente critico, dal momento che Curone si sofferma sulla struttura del film, che segue (o meno) in maniera interessante (o meno) i dettami del biopic, come fa, ad esempio, per Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann (ivi, pp. 233-234) o per Big Eyes (2014) di Tim Burton (ivi, p. 505); sulla qualità della narrazione, delle immagini, della ricostruzione storica, del cast, come nota, tra altri, per La maschera dei Borgia (1949) di Mitchell Leisen, in cui richiama sempre anche altre critiche, in questo caso, ad esempio, quelle di Leonard Maltin e Paolo Mereghetti (ivi, p. 79).
La parte dedicata all’aspetto iconografico dei film, invece, permette a Curone di aprirsi anche alle effettive citazioni pittoriche sullo schermo, ossia alla presenza o meno di riproduzioni delle opere, anche sottoforma di tableaux vivants; rispetto al film La ragazza con l’orecchino di perla (2003) di Peter Webber, ad esempio, nota che:
Due sequenze citano il meraviglioso Concerto a tre (1666 – 1667 ca.). Nel primo caso una panoramica descrive, in una sorta di tableau vivant, una scena d’interni molto simile a quella raffigurata nel dipinto, dove il pittore si trova accanto alla moglie, che probabilmente posò per il quadro, seduta al clavicembalo. Nel secondo un movimento di macchina parte dalla superficie della tela per poi inquadrare l’ambiente che vi è raffigurato, con alcune varianti: oltre alla figura di Griet, intenta nei suoi lavori, vi compare un violino appoggiato sul tavolo, in luogo del violoncello adagiato sul pavimento che si osserva nel quadro (ivi, p. 172).
Lo schermo dipinto, allora, dimostra il tentativo del cinema di raccontare e, forse, di reinventare la storia della pittura; non solo attraverso la mera ricostruzione storica delle biografie di pittori e pittrici messi e messe in scena, ma anche tramite l’insorgenza della materia pittorica nell’immagine cinematografica. È forse possibile pensare che, così facendo, il cinema, raccontando e reinventano la storia della pittura, racconti e reinventi, di volta in volta, la sua stessa storia.
Riferimenti bibliografici
L. De Franceschi, a cura di, Cinema/Pittura – Dinamiche di scambio, Lindau, Torino 2003.
Stefano Curone, Lo schermo dipinto. Storia della pittura al cinema, da Giotto a Warhol, Edizioni Sabinae, Roma 2024.