Se per ogni delitto c’è un castigo, per ogni pentimento è possibile un percorso di redenzione. La salvezza spetta dunque anche ai carnefici più feroci, consapevoli torturatori di vittime innocenti, a patto che siano disposti a cercare perdono per le proprie colpe.

Kapitan Volkonogov Bezhal (Il capitano Volkonogov è scappato), diretto dalla coppia di registi russi Natasha Merkulova e Aleksey Chupov, è ambientato nella Leningrado del 1938, in pieno “grande terrore” staliniano. Nella sfarzosa sede dell’NKVD (il servizio di sicurezza nazionale sovietico) gli agenti indossano divise dal colore rosso fiammante, hanno corpi atletici e muscoli ben definiti, esercitano la violenza alla stregua di una disciplina sportiva: le sadiche sessioni di tortura si alternano a rotazioni sul cavallo con maniglie e a specifici esercizi di tiro al piattello, un colpo equivale a un’esecuzione, nessun proiettile deve andare sprecato. L’obiettivo è eliminare indiscriminatamente ogni tipo di minaccia al regime. Sono considerati nemici dello stato o spie anche le persone che hanno raccontato una barzelletta fraintendibile, ogni “metodo speciale” utilizzato per estorcere loro confessioni fasulle risulta valido e viene applicato senza scrupoli.

Questo è il quadro presentato dal film finché il capitano del servizio di sicurezza Fëdor Volkonogov, interpretato da un magnetico Yuriy Borisov, non decide di scappare. Il clima di terrore e sospetto non risparmia infatti gli uomini preposti al controllo, inglobati in una organizzazione piramidale estremamente rigida e tuttavia incapace di impedire che qualche divisa rossa si butti giù, talvolta, dai piani più alti del palazzo. Quando Volkonogov, agente fino a quel momento irreprensibile nel compiere il suo dovere, capisce di stare per diventare un bersaglio, invece di buttarsi giù dalla finestra scappa, corre fuggendo dai suoi inseguitori, sa bene che fuggire dalle proprie terribili colpe non è possibile. C’è una sola via di salvezza per la sua anima, lo avverte una visione infera — quella di un ex collega ucciso che emerge da sotto terra, dove il contrappasso per analogia lo ha condannato a una tortura perpetua —, se riuscirà a ottenere il perdono da almeno una delle persone che ha immutabilmente offeso potrà aspirare al paradiso.

La folle e vorticosa fuga-ricerca del capitano, armato, questa volta, solo di una cartella contenente i nomi e gli indirizzi necessari a rintracciare i parenti delle vittime, continuerà per tutto il film, arrestandosi solo negli ultimi istanti del finale, quando dopo numerosi rifiuti e impedimenti riuscirà a ottenere un solo, ma inestimabile, perdono. Accanto alla narrazione principale si sviluppano continui flashback, ad ogni richiesta di preghiera del pentito si affiancano le carneficine da lui stesso effettuate, rese ancora più atroci e disumane dalle futili motivazioni che le hanno causate.

Due sono le dimensioni distinguibili nel percorso compiuto da Volkonogov: una è quella terrena, la caccia tra predatore e preda, in cui si susseguono le numerose e avvincenti scene di inseguimento che attraversano i viali maestosi e i vicoli oscuri di Leningrado; l’altra è la dimensione interiore, il graduale passaggio di acquisizione di consapevolezza delle proprie colpe e del proprio pentimento che condurrà il protagonista alla redenzione spirituale e all’abbandono volontario della vita terrena.

La fine di Volkonogov rappresenta dunque un nuovo inizio, il pentimento sincero possiede una potenza in grado di graziare anche il criminale più spietato con la salvezza ultra terrena, e allora non si può non accostare la parabola del capitano alle ultime parole di Delitto e castigo, dove il pentimento di Raskol’nikov permette l’originarsi di “[…] una nuova storia, la storia del graduale rinnovarsi di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignota.”

Dostoevskij non è l’unico riferimento letterario individuabile nel film, interamente costellato da presenze e ambientazioni mistiche e surreali, talvolta demoniache, che rimandano a una dimensione profondamente radicata nella cultura russa, basti pensare alle atmosfere evocate ne Il maestro e Margherita di Bulgakov, dove il mondo è governato dal male e la salvezza è per pochi, ma non per questo è impossibile.

Riferimenti bibliografici
M. Bulgakov, Il maestro e Margherita, Einaudi, Torino 2014.

F. Dostoevskij, Delitto e castigo, Einaudi, Torino 1981.

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