Cronaca della nascita di un “autore” o: cosa significa la parola autore nella Hollywood contemporanea? Il caso di Taika Waititi è esemplare per ripensare i meccanismi della fabbrica dei sogni, in un’epoca in cui gli Studios sono in profonda trasformazione, in cui il centro produttivo dell’immaginario mediatico si sposta sempre di più verso i prodotti creati dai giganti dello streaming mondiale.
Perché esemplare? Perché il regista neozelandese ha costruito nel tempo un proprio percorso, un proprio stile, la cui caratteristica è quella dell’ibridazione, del rovesciamento e dell’inversione dei codici narrativi; costruendo, al tempo stesso, l’immagine di una autorialità dentro e fuori il sistema industriale dei media.
Dopo il gioco del rovesciamento narrativo dei generi in What We Do in The Shadow? (2019-),la serie (che prende spunto da un film co-diretto dallo stesso Waititi), incentrata sulle vicende di tre vampiri in incognito nella New York contemporanea, e dopo la consacrazione nel cinema mainstream con Thor: Ragnarok (2017), strano oggetto al tempo stesso dentro e fuori le logiche narrative e produttive del Marvel Cinematic Universe, Waititi ritorna con un progetto particolare (e al tempo stesso riconoscibile), un film tratto dal romanzo Come semi d’autunno, della scrittrice neozelandese Christine Leuwens.
Leuwens, di origine italiana e belga, e Waititi, che ha radici Maori e ebree askenazite, condividono una comune cultura dell’ibridazione e del rovesciamento (o meglio, dell’inversione) delle forme narrative, costruendo racconti e immagini in cui convivono il comico e il drammatico, l’epica e la sua parodia. Da questo punto di vista, Jojo Rabbit è un manifesto teorico di una certa idea di narrazione che il cinema di Waititi rappresenta e che apre ad una nuova, contemporanea immagine del cinema come gioco delle forme.
Ma in che senso si sta parlando qui di questa inversione delle forme in relazione ad un film presentato più che altro come gioco di contaminazioni tra comico e drammatico, tra grottesco e tragico? Nel film c’è un momento chiave, non a caso legato al titolo. Il giovane Johannes, che ha il mito del nazismo e parla con il suo amico immaginario Adolf Hitler (interpretato dallo stesso regista), non riesce ad uccidere un coniglio, che è l’ordine che gli viene dato durante un incontro della Gioventù hitleriana. Proprio per questo fugge nel bosco mentre tutti gli altri gli urlano contro “coniglio!”, “JoJo coniglio!”.
Una volta solo in mezzo al bosco, Johannes parla con l’Hitler immaginario che per consolarlo gli parla del coniglio come di un animale coraggioso, che affronta la paura per uscire e cercare da mangiare per sé e per la sua famiglia, nonostante sia la preda per eccellenza per tutti gli altri animali. In questa inversione narrativa della figura del coniglio sta allora il senso dell’operazione di JoJo Rabbit (e che lo accomuna al lavoro sulla figura del supereroe e del vampiro) messa in atto da Waititi: fare dell’inversione energetica delle forme narrative la chiave per cercare nuove immagini, nuove possibilità cinematografiche. Il coniglio è al tempo stesso coraggioso e vile, pavido e disperato, determinato e tremante.
Si tratta di una chiave contemporanea: l’accento è infatti posto sulla forma narrativa, sulla scrittura (che già in Leuwens è al centro della composizione del romanzo di origine), come la nuova industria sembra richiedere, dopo lo spostamento degli investimenti produttivi nelle pratiche seriali, caratterizzate infatti da uno sviluppo ipertrofico delle pratiche di costruzione narrativa. JoJo Rabbit, dunque, dichiara sin dal titolo la sua poetica, si pone appunto come manifesto di un cinema che riprende le sue forme, le rigenera, le rimescola, a partire proprio dalle possibilità offerte dal processo di inversione energetica del senso.
Ecco che allora le immagini del film diventano a loro volta immagini molteplici, capaci di rimandare a fonti disparate, ogni volta sottoposte ad un percorso di rovesciamento, di inversione. Gli spazi del film, il rapporto tra i corpi e gli ambienti attingono a piene mani dalla forma geometrica del cinema di Wes Anderson; i modelli di riferimento – Chaplin, il Renoir di Questa è la mia terra (1943) nella rappresentazione della piccola cittadina, persino il Benigni de La vita è bella (1997) – scorrono tra i fotogrammi del film, in una sorta di giostra potenzialmente senza fine.
La scoperta del corpo senza vita della madre, da parte di Johannes, avviene attraverso la visione di un dettaglio (la visione delle scarpe di Scarlet Johansson), secondo i canoni della rappresentazione classica, hollywoodiana della morte; il sacrificio finale di Sam Rockwell ricorda i topoi del cinema classico, mentre la battaglia finale diventa l’immagine visionaria di un bambino che scopre, improvvisamente, l’assurdità della guerra. Più il film va avanti, più le immagini si intersecano, si stratificano, secondo un modello di cinema che vampirizza le immagini del passato cambiandogli spesso di segno, trasformandole e sottoponendole costantemente ad un processo di metamorfosi.
Ancora una volta emerge dunque il carattere di manifesto, o meglio di modello, di JoJo Rabbit. Modello spiazzante più che disturbante, perché l’immagine non esplode mai fino in fondo, posta sotto il controllo di una regia che proprio attraverso il controllo narrativo esalta la prevalenza della scrittura comica. È questo che garantisce l’unità del film, la forza della scrittura che tiene sotto controllo ogni inversione, ogni rovesciamento.
Riprendendo allora la domanda iniziale, è qui che si gioca, per Waititi, la possibilità di una autorialità interna al sistema dei media, alla forma produttiva del cinema industriale: attraverso un gioco delle forme sempre teso verso l’esplosione visionaria, ma al tempo stesso sempre sotto controllo. È (anche) qui che si gioca la partita dei nuovi director del cinema mainstream, in un terreno di gioco che forse è ancora lungi dall’aver sviluppato tutte le sue possibilità.
JoJo Rabbit. Regia di Taika Waititi; sceneggiatura: Taika Waititi; fotografia: Mihai Mălaimare Jr.; montaggio: Tom Eagles; interpreti: Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Taika Waititi, Rebel Wilson, Stephen Merchant, Alfie Allen, Sam Rockwell, Scarlett Johansson; musiche: Michael Giacchino; produzione: TSG Entertainment, Piki Films, Defender Films, Czech Anglo Productions; distribuzione: 20th Century Fox; origine: Nuova Zelanda, Stati Uniti d’America, Repubblica Ceca; durata: 108′.