La strada per l’inferno della cultura è probabilmente lastricata di buone intenzioni al pari della strada che porta verso l’inferno della teologia. Le reazioni dopo la traumatica invasione dell’Ucraina sembrano aver rinfocolato le fiamme di qualche inferno culturale in Europa occidentale: spettacoli e concerti sospesi perché avevano in programma autori russi; docenti che cancellano corsi su scrittori russi dopo polemiche sull’opportunità di discutere di letteratura russa in questo momento, senza nemmeno un confronto con la letteratura ucraina. Resta inteso che le intenzioni etiche sono le migliori: tutto nasce dalla volontà di manifestare solidarietà a un popolo attaccato. Il dubbio sorge sui risultati. L’ultima notizia dal fronte dello scontro culturale con la Russia di Putin viene da Londra, dove la National Gallery ha deciso di cambiare titolo a un disegno di Degas in suo possesso: il pastello Le danzatrici russe sarà ora intitolato Le danzatrici ucraine. Dà conto della vicenda un articolo del quotidiano britannico “The Guardian” disponibile in rete.

Un portavoce del museo riferisce al giornale che il dibattito sul vero titolo dell’opera è in corso da diverso tempo e che la direzione del museo ha ritenuto il momento attuale opportuno per decidere il cambio di titolo. Non c’è ragione di mettere in dubbio l’esistenza di un simile dibattito attorno al disegno di Degas; restano però ragionevoli dubbi sul far coincidere una scelta di carattere squisitamente scientifico, l’attribuzione del titolo autentico a un’opera, con la congiuntura politica e bellica internazionale. La vicenda merita senza dubbio un supplemento di indagine, ma, rimanendo alle informazioni fornite dal portavoce del museo, non può non sorgere il sospetto che la decisione sia stata orientata da ragioni umanitarie più che scientifiche. Sembrerebbe, da quanto si evince attraverso le dichiarazioni sia del portavoce sia di alcuni esponenti di associazioni culturali ucraine con sede a Londra, che il colore dei nastri delle danzatrici ritratte da Degas, gialli e blu, sia un inequivocabile segno della loro appartenenza nazionale all’Ucraina.

Se questa è la “prova” addotta per giustificare il cambio di titolo dell’opera, si ha l’impressione, per usare una coppia di concetti cara a Umberto Eco, di non essere di fronte a un’interpretazione, bensì a un uso dell’opera. L’uso di un testo e in senso allargato di qualsiasi opera non è necessariamente da condannare. Occorre essere tuttavia consapevoli del suo carattere situato: si tratta di rileggere, più che di leggere, l’opera in base alle esigenze e al contesto del lettore, anche a costo di tradire in tutto o in parte il significato dell’opera. L’uso si presta dunque bene alle letture etiche e politiche di un’opera ed è in questo senso pienamente legittimo, a patto di venire dichiarato dall’interprete. Nel caso specifico sorgono alcune obiezioni di buon senso alla scelta di cambiare il titolo, che possono essere riassunte di seguito. Cosa assicura che i colori dei nastri delle danzatrici rispecchino l’espressione di un sentimento nazionale? All’epoca in cui il disegno fu realizzato, le danzatrici che Degas vide ballare a Parigi erano molto probabilmente suddite dell’impero zarista: il territorio dell’attuale Ucraina era infatti diviso tra questo impero e l’impero austro-ungarico. Ed era molto comune che un osservatore francese come Degas non facesse distinzioni tra russi e ucraini, considerandoli appartenenti a un’unica entità statale.

Con ciò non voglio affatto negare l’esistenza di un nazionalismo ucraino ben prima delle tragiche vicende di cui siamo oggi testimoni. Il punto è capire se quella istanza nazionale fosse presente anche a Degas quando realizzò il disegno e se ne abbia effettivamente voluto dare conto attraverso la scelta dei colori dei nastri delle danzatrici. Il giallo e il blu erano già allora identificati come i colori di un possibile vessillo nazionale ucraino? E se sì, Degas era consapevole del significato politico di questo accostamento cromatico? Sono domande a cui è legittimo dare voce e che in nessun modo contrastano con la solidarietà verso le ingiuste sofferenze patite in questo momento dal popolo ucraino. La questione che, stando al resoconto giornalistico, sembra sfuggire ad esempio ai rappresentanti della cultura ucraina a Londra è che nell’attribuzione di un nuovo titolo al disegno non ne va in un alcun modo dell’arte e della cultura ucraine, del loro riconoscimento internazionale e del negazionismo della specificità di questa cultura da parte di una certa ideologia panrussa di cui Putin si fa portavoce. La questione che sfugge è che il disegno è opera di un celebre pittore francese e non può che essere interpretato a partire da questo inconfutabile dato di fatto. Russe o ucraine le danzatrici possono esserlo solo attraverso la percezione e l’intenzione di Degas, che le ha ritratte.

Senza ulteriori chiarimenti il cambio di titolo dell’opera da parte del museo londinese può allora essere inteso solo come un suo uso etico, nella fattispecie umanitario, le cui buone intenzioni, lo ripeto, non sono oggetto di critica. La questione riguarda semmai la salvaguardia della possibilità di interpretare correttamente l’opera, insieme a quella che chiamerei la politica dell’interpretazione. Al di là della geopolitica, questo conflitto apre una finestra sullo stato di salute della democrazia in Europa occidentale e non solo. L’essere coinvolti dal destino di un popolo attaccato è un tratto tipico di una società democratica, indipendentemente da come si voglia declinare questo sentimento di partecipazione come singoli cittadini e come governi. È proprio di una società democratica il fatto di essere solidali con la difesa e la promozione della libertà di chiunque, amico o nemico, vicino o lontano che sia. Un simile spirito politico sviluppa perciò un particolare pathos per la redenzione degli oppressi, che comprende l’istanza di ridare voce agli sconfitti, ai dominati, ai loro racconti e alla loro versione della storia, contro la versione ufficiale stabilita dai dominatori. Ma questa istanza di redenzione verrebbe meno a se stessa se, per ridare voce al racconto degli oppressi, eliminasse contemporaneamente il racconto degli oppressori.

La giustizia del racconto storico, su cui hanno richiamato l’attenzione Walter Benjamin, Hannah Arendt e più di recente Martha Nussbaum, non sfugge a una regola che vale tanto per il Dio di Tommaso d’Aquino quanto per lo spirito hegeliano: quale che sia l’istanza che muove la storia, essa non può eliminare i fatti, può solo ristabilirne il senso in relazione ad altro. Togliere i peccati del mondo non vuol dire che Dio elimina le azioni compiute, ma che solleva chi le ha compiute dalla pena. E così avviene nella Aufhebung hegeliana, che è infatti un superare il passato, conservandone la memoria. Pretendere di eliminare traccia di una cultura dominante in nome della protezione o della riscoperta di una cultura subalterna equivarrebbe a ripetere il gesto di oppressione, spostandolo dal piano politico e militare a quello culturale. Ma un simile gesto, per quanto possa apparire solidale con la parte giusta, o almeno con la più debole, avrebbe un effetto politico negativo a lungo termine, perché renderebbe più incerto il distinguere tra l’affermazione di sé e l’affermazione di un autentico spirito di giustizia.

Tags     Degas, titoli, Ucraina
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