Come si scrive un testo sull’«arte di dire la poesia»? Scrivendo poesie. Come può realizzarsi concretamente un «incanto fonico»? Leggendo le strofe a voce alta. Se dunque alla base dell’ultimo testo di Mariangela Gualtieri, pubblicato per Einaudi, c’è un’intenzione quasi saggistica – tradurre in parola ciò che da anni la poetessa agisce sul piano della prassi, componendo versi e recitandoli di fronte ad un pubblico – il risultato non può che essere, coerentemente, lo scavalcamento della prosa in favore della lirica e, successivamente, il suggerimento che quest’ultima debba viaggiare aerea sulla pagina, divincolandosi dalla carta e tornando ad essere puro suono. Conclusione: dell’incanto fonico non si può scrivere, si deve materialmente produrre. Il libro che arriva tra le mani del lettore è un libro che nega la sua natura e cerca di «essere altra struttura» (avrebbe detto Pasolini), un passaggio in una catena di eventi di cui non rappresenta la soluzione ultima. Il principio di qualcosa che ancora non esiste.

La richiesta che Gualtieri fa al lettore comporta così un certo impegno. Leggere qualcosa che non dovrebbe essere letto bensì pronunciato, carpire dalla metrica musicale di una parola cantata un pensiero che si impone di non vestirsi da prosa. In altre parole, al lettore che si avvicina a queste pagine spetta il duro compito di scontrarsi con il fatto che l’azione che svolgerà scorrendo con gli occhi sui segni grafici tracciati dall’autrice è un atto monco, forse persino sbagliato, perché si ostina a trattare da libro un oggetto che è concepito per essere tutt’altro. E d’altra parte Gualtieri sceglie di incarnare l’incanto fonico nel corpo scritturale delle parole, dunque, in qualche modo – si dice il lettore – è ben a conoscenza del fatto che si incapperà in una tale contraddizione.

So che questa mia impresa è quasi impossibile: fare intendere attraverso la parola scritta qualcosa che riguarda invece la vita del nostro orecchio – acustica, impalpabile, musicale. Per questo la lingua che ho accolto è elementare, intuitiva, bizzarra, nella speranza che sia l’intuito a guidare la lettura, e da questo nasca la voglia di provare a dire la poesia (Gualtieri 2022, pp. XIII-XIV).

Questo troviamo scritto nelle battute finali della breve introduzione al testo. Un po’ come i grandi registi della modernità (Duras, Godard, Jarman) sottraggono le immagini ma vogliono che lo spettatore assista alla loro mancanza, al nero eloquente e profondo delle inquadrature, Gualtieri toglie alla scrittura la sua legittimità in quanto sola scrittura ma lascia che il lettore si approcci ad essa da lettore, vivendo il suo gesto come inappropriato eppure, proprio per questo, adatto a sottolineare il potere eccedente del testo – parole «morte» (Gualtieri riprende l’espressione di Emily Dickinson nell’esergo) che torneranno vive solo quando saranno di nuovo voce.

Anche la struttura in dodici brevi sezioni riflette il profilo dicotomico del testo: da una parte l’aspetto riflessivo, dall’altra, in modo costante, l’emergere evenemenziale della carne, dei suoni, della discontinuità e talvolta dei neologismi e delle crasi fantasiose e “intuitive”. I titoli riportano così espressioni come “poesia”, “metro”, “a memoria”, ma anche “tatto”, “silenzio”, “paura”, “respiro”, “pianto”. Oltre che, naturalmente, “Voce”.

È precisamente nella «vocalità» – riprendendo l’espressione di Paul Zumthor citata da Gualtieri stessa, il quale distingue la “vocalità” come espressione ancora pre-linguistica da un’“oralità” già contaminata dal pensiero verbale – che alberga la chiave attraverso cui la parola poetica torna ad essere «Arte Orale». «Incanto fonico», appunto – definizione che l’autrice prende in prestito dalla poetessa Amelia Rosselli – in quanto rito sonoro destinato ad un pubblico «denutrito», irrequieto sulle sue «poltroncine» mentre aspetta di abbeverarsi da una lettera inerme trasformata di nuovo, grazie alla mediazione del corpo sulla scena, in energia.

“Ghiandola pineale” capace di connettere mente e corpo, la voce del poeta annienta le immagini narrandosi con la forza e la musicalità dell’attività fonetica, muovendo l’aria nelle cavità orali e fondando il significato delle parole direttamente dentro l’interiorità organica delle membra di chi le sta pronunciando. Questo tipo di pratica, che deve tutto all’antica cultura greca (l’aedo omerico) ma anche a quella orientale (la rivelazione vedica), combatte quello che Adriana Cavarero chiama un processo di «devocalizzazione», ovvero, con l’avvento della cultura della scrittura, una progressiva perdita del rilievo della componente “significante” (sonora, acustica) su quella del significato. L’incanto fonico al contrario ribalta l’andamento storico individuato dalla filosofa e torna al «poco e niente» della voce – capace, nei continui ossimori utilizzati da Gualtieri, di legarsi al «tutto tutto» del mondo, regredendo ad una forma animista in cui il suono viene reintegrato nella materia del cosmo.

Sono tanti gli studiosi, i cui riferimenti rimangono sottesi al testo ma decisamente presenti nella sensibilità di Gualtieri, che si sono interrogati sulla natura di una parola disposta a tornare puro corpo sonoro. Levinas distingueva l’atto del dire («le dire»), in quanto momento pratico del pronunciare e del maneggiare i fonemi, dal “detto” («le dit»), come ritaglio finale del significato sul reticolo dei significanti; su questa scia Kristeva costruiva le definizioni di «genotesto» (il “segno-atto” ancora pre-linguistico) e di «fenotesto» (la punta dell’iceberg in grado di consegnare all’espressione sonora un valore simbolico e culturale). O ancora De Certeau, che con la celebre invenzione di «Glossolalia» fa del recupero della dimensione fonetica della parola la bandiera di un mondo utopico, in cui non ci si preoccupa più di abbandonarsi ad «eruzioni sonore» del Verbo destinate a scoprire il linguaggio nei suoi straripamenti e nelle sue «erbacce» (ripetizioni, errori, tentennamenti, rumori fisiologici) di solito estirpate.

D’altronde la voce, aspetto ricorrente nelle strofe della poetessa, è unica – «solonostra», nella crasi di Gualtieri, singolare nella sua grana irreplicabile – e al contempo universale; comune, nel suo essere verso, ringhio, grido, sussurro, a tutte le creature, umane e non umane («di tutti e di ciascuno», scriveva Platone nel Filebo).

Questo anche perché l’elemento vocale non può non ricondurre prepotentemente i parlanti e gli astanti ad un richiamo all’origine, ovvero a quel guscio uterino in cui feto e madre sono uniti in primo luogo a partire da un ventre vibrante («tela ombelicale acustica», la chiama Chion), che si fa vincolo di nutrimento del non ancora nato e allo stesso tempo culla sonora del suo sviluppo, prima che l’unione simbiotica lasci spazio alla nascita e alla recisione di una sola voce in due timbri a sé stanti. Nei versi di Gualtieri questa rimembranza è perennemente presente, nello specifico nell’accennare in diversi momenti all’habitat della voce come ambiente liquido, persino marino, in cui la voce diventa un’«alga» portata ad emergere dalle profondità acquatiche sciogliendosi, come in un balsamo, attraverso la sua fuoriuscita nel mondo.

Questa fuoriuscita comporta tuttavia una negoziazione non scontata. Il poeta deve riuscire a capire «come mettersi lì» – così la scrittrice intitola un paragrafo –, nella corrente impetuosa tra una voce proferita e contemporaneamente udita da chi con quel corpo entra in risonanza. L’incanto presenta allora due facce, una corrispondente ad un rapporto silente tra la voce che nasce nell’interiorità del corpo e la bocca che ne riconsegna all’esterno le onde sonore, costruendo uno spazio che, ne La voce e il fenomeno, Derrida ha descritto come «prossimità a sé»; l’altro consistente nella trasfigurazione del moto interiore in una carne vocale che ne compromette l’astrazione facendolo cadere in suoni materiali, esposti all’«accidente» (un colpo di tosse, un sospiro, un balbettio).

È la voce a parlare il corpo, non il contrario: il “canta-parole” deve anzi annullarsi in favore del flatus che da lui emana, «dimettendo» il proprio sé e accettando di sottostare a quell’anarchico «corpo molle» della voce, come lo chiamava Carmelo Bene, che vive di vita propria e “ventriloquizza” l’umano. L’aveva ben compreso Artaud, il quale, ben prima dell’intervento di qualunque apparecchiatura tecnica sulla scena teatrale, aveva intuito la radicalità di tale autosufficienza grazie al lavoro sulla cosiddetta «intervocalità»: il regista suggeriva di ricevere la voce a teatro come «atopia», ovvero una voce che è sempre già altro, plurale e senza un luogo definito, avente il potere di iniettare corpo in una scrittura che, per la sovrapposizione di voci alle parole, smontava la verosimiglianza del legame fra corpo e linguaggio nella figura dell’attore.

Ci sono due ultime parole importanti nel testo di Gualtieri che non possono qui essere dimenticate. La prima è attenzione, e vuole sgominare ogni equivoco che porti a pensare che il rito sonoro conduca a perdere la bussola in un ascolto dispersivo, avvolgente, non direzionato e aperto a qualunque forma di immaginazione. Tanto “chi dice” quanto “chi è detto” deve all’inverso predisporsi ad una certa mirata concentrazione, atta a conservare, nel contatto diretto con il magma sonoro a cui si espone, il peso delle singole parole che vengono pronunciate.

La seconda parola, ad essa profondamente legata, è urgenza: quella di un momento storico in cui la parola rischia di sovraffolare l’ascolto aggiungendosi passivamente al rumore d’ambiente, o in cui, post-pandemia, ci siamo sempre più abituati alla pasta gracchiante di suoni online mal compresi, distorti, lontani. Rispetto a questo – e qui è evidente come l’incanto fonico non possa e non debba distogliersi dalle prassi del presente – è di enorme rilievo lo sviluppo tecnologico. «Intimità d’ascolto come io con tu: questo fa sacrosanta la tecnologia». Sulla scena – o fuori dalla scena, in un podcast o in un messaggio vocale – l’aspetto tecnico ha il compito di salvare le parole da un bagno acustico inquinato che le svilisce. Ecco perché l’ultima figura che Gualtieri ringrazia alla fine del rito è quella del fonico, parte integrante dell’incanto.

Riferimenti bibliografici
A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003.
M. De Certeau, Vocal Utopias: Glossolalias, in “Representations”, Special Issue: The New Erudition, n. 56, autunno 1996.
J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano 1968.
J. Kristeva, Le langage cet inconnu. Une initiation à la linguistique, Éditions du Seuil, Parigi 1981.
E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 2018.
P. Zumthor, Prefazione, in C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna 2000.

Mariangela Gualtieri, L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia, Einaudi, Torino 2022.

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