Noi e loro: il titolo originale del saggio L’idea russa ci restituisce l’idea portante con la quale Jangfeldt ricostruisce la battaglia di idee tramite la quale la Russia ha pensato sé stessa. Noi e loro: a partire dall’imperatore Pietro il Grande (1672-1725) e Pētr Čaadaev (1794-1856), solitamente definito come il primo filosofo russo, autocrazia e intelligencija hanno definito l’identità russa in termini oppositivi, delineandola attraverso il confronto con l’Europa.

Muovendo dal riconoscimento di un diverso sviluppo sociale, politico ed economico, la domanda centrale di ogni dibattito in Russia è se considerare l’Europa come paradigma universale di civiltà e perciò come modello, cercando di recuperare il divario accumulato rispetto a essa, o se piuttosto rivendicare la differenza del proprio processo di civilizzazione, proponendo un percorso storico autonomo, basato perlopiù su alcuni tratti idealizzati, come la diffusa fede ortodossa e il modello comunitario di proprietà del mondo contadino. Nella sua forma aurorale, questa alternativa si è articolata, pur con tutte le variazioni del caso in autori non così facilmente classificabili come Herzen o Solov’ēv, nel dualismo tra occidentalisti e slavofili, ma è una tensione che ha segnato le diverse stagioni del potere russo, da quello imperiale a quello sovietico fino a quello attuale, formalmente democratico, della Federazione russa.

Se ogni intellettuale russo difficilmente si è sottratto alla domanda su quale fosse l’idea russa, secondo la formula di Dostoevskij poi ripresa da Berdjaev, ciò significa che il rapporto con il potere dell’intelligencija non è stato di vigilanza critica, come perlopiù nell’Occidente post-illuminista, ma piuttosto di sostegno ideologico. Questo può tradursi a volte nell’elaborazione di un orizzonte di idee e di visioni del ruolo della Russia, dal quale hanno potuto attingere i leader politici, come negli ultimi decenni è accaduto con le opere di Aleksandr Dugin rispetto a Putin; in altri casi, secondo dinamiche più elementari, ha significato per la cultura assumere il compito della propaganda. Questa differenza, se pure molto può dire dell’autonomia intellettuale dell’intelligent in questione, retrocede in secondo piano rispetto alla constatazione che il compito principale che viene richiesto alla cultura è quello di farsi pedagogia delle masse.

Jangfeldt individua alcuni snodi storici che, a loro volta, hanno spinto a una riformulazione dell’alternativa aurorale tra occidentalisti e slavofili. La sconfitta nella guerra di Crimea (1853-1856), che ha scatenato un’ondata di revanscismo e di nazionalismo aggressivo nel mondo slavofilo, scivolato nelle rivendicazioni imperialiste sostenute dal panslavismo di autori come Danilevskij, che reclamavano la conquista russa di Costantinopoli, e nell’accentuazione di una ipotetica funzione messianica della Russia rispetto all’Occidente. L’attentato nel 1881 ad Alessandro II, che ha bloccato irrimediabilmente il processo di riforme e la trasformazione dell’impero in una monarchia costituzionale, rendendo sempre più flebile, rispetto a quella dei socialisti, la voce dei liberali all’interno del mondo degli occidentalisti. La Grande Guerra e la rivoluzione bolscevica, che ha diviso il mondo dell’intelligencija e che ha visto riproporre la domanda sull’idea russa perlopiù dalla comunità in esilio.

E infine i primi anni novanta del secolo scorso, quando El’cin, dopo le elezioni del 1993 e la vittoria di forze anti-occidentali, ha cercato di adattarsi alla nuova stagione politica, pronunciando prima un discorso al Consiglio federale, in cui denunciava il vuoto ideologico creatosi dopo la caduta del comunismo, e quindi assegnando ai suoi collaboratori più stretti il compito di individuare «quale idea nazionale, quale ideologia nazionale, fosse più importante per la Russia». Questa idea nazionale non fu ritrovata dai collaboratori di El’cin, ma da Aleksandr Dugin che nel 1997 con Osnovy geopolitiki (Fondamenti di geopolitica) ha portato al centro del dibattito l’eurasismo, una tendenza nata negli anni venti del Novecento, attorno a un pamphlet di Nikolaj Trubeckoj, L’Europa e l’umanità (1920), opera che l’autore stesso in parte rinnegò negli anni seguenti, quando si dedicò con Jakobson a porre le fondamenta della linguistica strutturale.

La tesi fondamentale dell’eurasismo: lo Stato ideale non è democratico, ma ideocratico, e il soggetto portatore dell’idea-guida dello Stato è la Chiesa ortodossa, che riflette i valori spirituali fondamentali della Russia. Rispetto agli slavofili, la contrapposizione non è però semplicemente tra Russia ed Europa, ma include un terzo elemento, l’Asia, la cui influenza su quello che ha significato nella formazione dello Stato russo è ricordata con enfasi.

La Russia è ponte nel quale interagiscono e si scontrano i principi dell’Occidente e dell’Oriente. La Russia, o meglio l’Eurasia, unita dallo «sviluppo locale» comune, va dalla Cina occidentale fino ai Carpazi e include, secondo il disegno sviluppato da Dugin, l’Ucraina meridionale e orientale, il Caucaso, il Kazakistan, il Turkmenistan, l’Uzbekistan, il Kirghizistan, il Tagikistan, oltre alla Mongolia. La costa settentrionale del Mar Nero deve essere, secondo questa prospettiva, posta interamente sotto il controllo di Mosca. Questo movimento marginale aveva interessato negli anni venti perlopiù intellettuali della diaspora russa. Ben presto ne era stata sottolineata, a volte addirittura da chi lo aveva sostenuto (Trubeckoj) o ne aveva condiviso alcune posizioni (Berdjaev), la sua debolezza teorica.

Come dare alla fede ortodossa un tale ruolo privilegiato, in uno Stato multinazionale, che comprende fedeli di tante religioni diverse? E lo Stato ideocratico non è al fondo l’immagine speculare dello Stato monopartitico sovietico? Del resto, la politica imperialista dell’Unione Sovietica finì per sedurre alcuni eurasisti, che distinguevano tra comunismo ateo, di marca occidentalista, e il bolscevismo, letto come un’evoluzione del nazionalismo di marca slavofila, soprattutto quando Stalin iniziò a esaltarne le radici nazionali. Questa fascinazione per l’epoca staliniana ritorna difatti nel rapporto ambiguo del potere putiniano con il passato sovietico, celebrato lì dove ha permesso di difendere il “destino” imperiale della Russia.

L’ampiezza del disegno di Jangfeldt permette di riconoscere la natura ideocratica del potere russo/sovietico e al contempo la funzione pedagogica che ha animato l’intelligencija russa. Alcuni nodi, proprio in nome dell’ampiezza del disegno, avrebbero richiesto maggiore sviluppo. In primo luogo, la matrice “slavofila” del potere bolscevico, lì dove per decenni il mondo occidentale ha ricercato in esso piuttosto l’esito estremo di valori e strumenti interpretativi propri della tradizione occidentale. In secondo luogo, ma sarebbe stato il fulcro di un’ulteriore ricerca, l’analisi delle modalità con le quali le arti hanno tradotto la propria funzione pedagogica.

L’alternativa tra «estetizzazione della politica» e «politicizzazione dell’arte», con cui sulla scia di Benjamin si è cercato di dar conto degli intrecci sempre più complessi tra potere della politica e politica delle immagini, appare insufficiente, almeno rispetto a un paese come la Russia. Molti artisti russi e sovietici hanno identificato il proprio ruolo non nel controcanto critico del potere, ma piuttosto in quello di ideologo dell’identità russa e da qui di guida morale del popolo da raccogliere sotto tale idea, a volte in competizione col potere politico, a volte più modestamente come sua amplificazione propagandistica. Da Dostoevskij a Ejzenštejn, da Majakovskij a Tarkovskij, e la lista potrebbe continuare a lungo, in gioco ogni volta vi è una prospettiva messianica che è assegnata alla Russia, spesso proprio muovendo dal riconoscimento della propria alterità dall’Occidente. Ancor più precisamente, dal riconoscimento di una supposta inferiorità, che viene rovesciata nella superiorità di poter esplorare possibilità ignorate dall’Europa. Secondo uno sferzante giudizio di Brodskij, riportato da Jangfeldt: «Non bisogna mai sottovalutare il complesso di inferiorità dei miei ex compatrioti».

Tornando al tema centrale de L’idea russa, l’individuazione di questa famiglia di idee che dallo slavofilismo passa al panslavismo e quindi all’eurasismo in dialogo col bolscevismo, permette di riconoscere in modo limpido la matrice ideologica del disegno neo-imperiale di Putin, spazzando via da una parte tante chiacchiere su ipotetiche forme di paranoia da parte del presidente russo, ma anche tante analisi che leggono l’invasione dell’Ucraina soltanto come una forma di risposta alle politiche della Nato e dell’Occidente. Già nel 2012, Putin in un discorso pronunciato di fronte al Consiglio federale, avvertiva che gli anni a venire sarebbero stati cruciali, richiamandosi a uno dei protagonisti dell’eurasismo, Lev Gumilēv, e nel 2013 parlava del progetto di un’Unione eurasiatica, in esplicita contrapposizione con l’Unione europea.

Mettendo da parte qualsiasi genere di valutazione morale sulle scelte geo-politiche della Federazione russa, quello che però emerge in questa storia di idee (e nella dimensione ideocratica del potere russo e sovietico) è la ragione anche della sua intrinseca debolezza. Pensando la propria identità sempre in termini oppositivi, come negazione dell’Occidente, la Russia non può che riaffermare la propria dipendenza ideale da esso, come accade per ogni prospettiva ideologica che si definisce come negazione di un positivo che, proprio in virtù di ciò, precede e rende possibile tale negazione. La dipendenza, tanto più evidente quanto più rimossa, permetterebbe per inciso anche di capire la possibile doppia “discendenza” del bolscevismo soprattutto d’epoca staliniana, dall’occidentalismo del marxismo e dallo slavofilismo del nazionalismo imperialista, in quanto provengono dal ceppo comune del dibattito ideologico occidentale, successivo alla Rivoluzione francese.

Andando alla radice, è questo il nodo: quello che tramite il riferimento all’Occidente è identificato dalla cultura russa come l’Altro, è la rielaborazione della tradizione anti-illuminista di alcuni filoni del Romanticismo tedesco, da von Baader al tardo Schelling, che hanno declinato in chiave conservatrice l’ostilità ai processi di modernizzazione, dall’ambito sociale a quello più strettamente politico, che hanno investito l’Europa del XVIII e XIX secolo. Quello che per lo slavofilo è l’Occidente, per gli anti-illuministi europei è il Moderno, che pretendeva di fondare sull’autonomia dell’Io la legittimazione del potere (conoscitivo e politico).

La metafora temporale si tramuta in metafora spaziale, rinviando comunque sempre a un ulteriore “tempo” escatologico il superamento del dissidio, con l’affermazione del termine più debole, del polo in contraddizione con la logica del proprio tempo. La debolezza di queste storiosofie, riconosciuta anche da Heidegger che pure tanto ne è influenzato nella sua ricostruzione della «storia dell’Essere», è che cercano la reazione al cosiddetto processo di uniformizzazione economica e di decadenza morale, la reazione all’isolamento metafisico dell’io, nella contraddittoria affermazione di una Volontà che dovrebbe governare e indirizzare la Storia, quando è proprio l’autonomia dell’io il principio metafisico messo in discussione. Sapere aude, avrebbe affermato qualcuno, già qualche secolo fa.

Bengt Jangfeldt, L’idea russa. Da Dostoevskij a Putin, Neri Pozza Editore, Vicenza 2022.

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